Echi dal Margine – RSI

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Di: Leonardo Marchetti 

La storia, lungi dall’essere il pacificato racconto di un progresso lineare e necessario, è un campo di forze attraversato da contraddizioni e conflitti, in cui l’inclusione e l’esclusione si rivelano meccanismi costitutivi della costruzione dell’ordine sociale. Come insegna Giorgio Agamben, la definizione di chi appartiene alla comunità politica e di chi ne è escluso non è mai un dato neutro, ma il prodotto di dispositivi di potere che operano nel tempo per stabilire e ridefinire i confini tra centro e periferia, tra chi gode di diritti e chi è relegato nella condizione di homo sacer, privato della piena cittadinanza. Non vi è storia senza margini, né potere che non si costituisca attraverso l’individuazione dei propri esclusi.

La marginalità, dunque, non è solo una condizione passiva, ma anche uno spazio di trasformazione e resistenza, che nel corso dei secoli si è manifestato in forme molteplici: sociale, politica, economica, culturale, riguardando ora gruppi esclusi dalla cittadinanza, individui privati di diritti, ora dissidenti, poveri, folli, comunità queer, artiste o artisti. Esaminare la loro storia significa non solo riportare alla luce il loro vissuto, ma anche riflettere sulle dinamiche che hanno determinato l’inclusione e l’esclusione nel tempo, svelando i meccanismi attraverso cui il potere ha strutturato la società e definito i suoi confini.

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Tra i pensatori che hanno esplorato le dinamiche dell’emarginazione, Michel Foucault occupa un posto di rilievo. Nei suoi lavori “Sorvegliare e punire” e “Storia della follia”, egli mostra come il potere disciplini e produca la marginalità attraverso istituzioni e pratiche sociali. La sua analisi della follia, ad esempio, evidenzia come il manicomio sia stato uno strumento di esclusione e normalizzazione, relegando il diverso al confine della società.

Se Foucault individua nell’istituzione disciplinare il meccanismo di produzione della marginalità, Marx e Engels ne svelano l’altra faccia: la sua radice economica. La marginalità, infatti, non è solo il prodotto delle istituzioni disciplinari, ma anche della struttura economica del capitalismo, che continuamente crea e riproduce sacche di esclusione funzionali al mantenimento dell’ordine sociale.
Karl Marx ha indagato la questione della marginalità attraverso il concetto di lumpenproletariat, una categoria sociale esclusa dai processi produttivi e ritenuta priva della capacità di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. Tale visione trova un approfondimento in Friedrich Engels, che ne “La condizione della classe operaia in Inghilterra” ha evidenziato come la povertà estrema nelle città industriali non fosse una semplice contingenza, bensì una conseguenza strutturale del capitalismo, che tende a produrre e riprodurre la marginalità come funzione del proprio stesso sistema. Questa riflessione sulla condizione degli esclusi si intreccia con l’analisi di W. E. B. Du Bois, che, in “The Souls of Black Folk”, ha elaborato il concetto di ‘doppia coscienza’ per descrivere l’esperienza degli afroamericani: un’esistenza segnata da un’identità divisa, costretta a guardarsi attraverso lo sguardo della società dominante. Una marginalità che di rimando, nel caso specifico, non è solamente conseguente a determinati rapporti economici e di classe, ma si configura per Du Bois come una condizione psicologica e culturale determinata da un sistema di oppressione razziale che ha imposto agli esclusi di interiorizzare la propria subordinazione, di dividere la propria esistenza tra la percezione di sé e lo sguardo dominante della società bianca.

La marginalità, quindi, assume volti differenti nei vari contesti storici e geografici, e per comprendere la sua persistenza è necessario volgere lo sguardo a epoche precedenti, dove altre forme di esclusione hanno segnato profondamente il tessuto sociale.

Nel Medioevo, la marginalità si configurava spesso come una condizione imposta da strutture religiose ed economiche, plasmata dalle istituzioni ecclesiastiche e dalle dinamiche sociali dell’epoca. Jacques Le Goff ha approfondito il ruolo di diverse categorie stigmatizzate, come gli eretici, considerati minacce all’ortodossia, i lebbrosi, simbolo della separazione tra puro e impuro, le donne accusate di stregoneria, espressione della paura del femminile non conforme, e gli ebrei, frequentemente esclusi e perseguitati in quanto comunità percepite come estranee all’ordine cristiano dominante. In questa stessa prospettiva, Bronislaw Geremek, in “La pietà e la forca”, ha analizzato in specifico la gestione della povertà nelle città medievali, evidenziando come i poveri fossero percepiti sia come destinatari di carità, sia come minacce da reprimere. Soltanto la nascita degli Stati moderni -insegna Michel Foucault in “Nascita della biopolitica”- avrebbe comportato il passaggio dalla gestione caritatevole medievale a un’amministrazione statale della povertà, in cui il sostegno ai bisognosi sarà sempre più vincolato a logiche di sorveglianza e regolazione sociale, legandosi alla necessità di controllare e disciplinare le classi più vulnerabili della popolazione. In questo quadro, la povertà non fu più soltanto un problema sociale, ma divenne una questione politica che gli Stati dovevano affrontare attraverso l’imposizione di misure repressive e di controllo.

L’età moderna segna ad ogni modo una svolta nella configurazione delle forme di esclusione, ampliandone la portata ben oltre la questione della povertà. Mentre gli Stati moderni si strutturavano attraverso il controllo e la regolamentazione delle classi più vulnerabili, nuovi meccanismi di discriminazione prendevano forma su scala globale. Si pensi alle gerarchie razziali create dal colonialismo europeo in America Latina, che, a partire dal XVIII secolo, si consolidarono attraverso la sistematizzazione delle teorie razziali e la costruzione di un ordine sociale basato sulla discriminazione. Si pensi alle pinturas de castas e in parallelo ai lavori di Carl Linnaeus e di Johann Friedrich Blumenbach, che contribuirono alla classificazione delle ‘razze’ umane, fornendo una giustificazione pseudoscientifica alla dominazione coloniale europea. Parallelamente, in Oriente, l’Occidente elaborò una rappresentazione dell’alterità attraverso le lenti del dispotismo e dell’arretratezza, un processo ben analizzato da Edward Said in “Orientalismo”, il quale evidenzia come tali costruzioni servissero a legittimare il dominio europeo su vaste porzioni del mondo non occidentale.

Le trasformazioni sociali e politiche dell’età moderna non risparmiarono poi il campo delle identità di genere e sessuali. Anche la condizione delle donne e delle persone queer fu progressivamente medicalizzata e criminalizzata, inserendosi in una più ampia logica di disciplinamento dei corpi e delle identità. Con il consolidarsi degli Stati nazionali e delle istituzioni mediche tra il XVIII e il XIX secolo, il controllo sulle categorie ritenute deviate divenne uno strumento di regolazione sociale. Tale dinamica si intensificò con l’espansione della medicina legale e della psichiatria, che classificarono e patologizzarono comportamenti e identità non conformi. Le legislazioni nazionali iniziarono a normare più rigidamente la sessualità e il ruolo delle donne nella società, con effetti che avrebbero avuto ripercussioni fino al XX secolo. La definizione delle identità deviate si inserì in un più ampio processo storico di normazione e disciplinamento, nel quale le pratiche sociali e istituzionali consolidarono meccanismi di marginalizzazione delle differenze. Judith Butler e Eve Kosofsky Sedgwick hanno esplorato in profondità questi meccanismi, mostrando come le categorie di genere e sessualità siano state articolate non solo per descrivere, ma anche per escludere e patologizzare le identità non conformi. Già nel XIX secolo, con l’affermarsi della medicina legale e della psichiatria, questa tendenza divenne evidente, per poi intensificarsi nel XX secolo in concomitanza con l’emergere di movimenti di emancipazione e autodeterminazione.

L’affermazione di nuove forme di soggettività e il rifiuto della patologizzazione delle identità deviate portarono a una graduale ridefinizione della marginalità, non più solo come spazio di esclusione, ma anche come terreno di lotta politica e culturale. La rivendicazione dei diritti civili divenne uno dei punti di svolta di questo processo nel corso del XX secolo, in particolare con le lotte per l’emancipazione delle donne, le mobilitazioni per i diritti LGBTQ+ e il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

Gli anni ’60 segnarono in questo senso una fase cruciale, con l’approvazione del Civil Rights Act del 1964 negli USA, oltre alle numerose battaglie per la decriminalizzazione dell’omosessualità in diversi paesi occidentali e la progressiva istituzione di tutele giuridiche per le donne in ambito lavorativo e sociale. Nei decenni successivi, la marginalità ha continuato a essere interrogata e ridefinita non più come uno spazio di mera esclusione, ma come un dispositivo attraverso il quale il potere si articola e si riproduce, generando al contempo nuovi spazi di contestazione. Seguendo questa logica, i movimenti femministi, LGBTQ+ e, più recentemente, Black Lives Matter non si sono limitati a reclamare diritti, ma hanno svelato il funzionamento stesso delle strutture di oppressione, sovvertendone i meccanismi di normalizzazione e disciplinamento. Non solo. Hanno mostrato ancora una volta che la resistenza non è solo un atto di opposizione, ma un processo che disarticola e ricodifica il senso stesso della marginalità, costringendo il potere a ridefinire incessantemente i propri confini.

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Questa tensione tra esclusione e trasformazione si è impressa anche nelle arti visive come un marchio indelebile, un’eco persistente che attraversa i secoli. I marginali non vi compaiono come semplici comparse della storia, ma come protagonisti inquieti, testimoni di un’umanità che sfida il silenzio a cui il potere vorrebbe relegarla. L’arte, nel suo farsi gesto e materia, ha spesso raccolto il loro sguardo, restituendolo con una forza che sovverte l’ordine costituito. Dipingere un marginale non è mai solo raffigurarlo: significa riscrivere le gerarchie della rappresentazione, mettere in crisi le norme stesse attraverso cui il mondo si pensa e si racconta.

Diego Velázquez, ad esempio, che nel “Las Meninas” non solo gioca con le gerarchie della rappresentazione, ma introduce la figura del nano di corte, simbolo di una marginalità esibita e al contempo inscritta nel cuore del potere. Velázquez non dipinge la marginalità come un elemento estraneo, ma la colloca all’interno della macchina del potere stesso, con una sofisticata ambiguità che richiama la dialettica tra visibile e invisibile. Un’intuizione che, in chiave più drammatica, trova il suo apice nella pittura di Caravaggio. In opere come “San Matteo e l’angelo, il santo appare con i piedi sporchi, un dettaglio scandaloso per la committenza, o nella “Morte della Vergine”, dove il sacro si dissolve in una scena di miseria quotidiana, annullando ogni distanza tra lo spettatore e il soggetto. Due opere che rendono subito evidenti come Caravaggio non si limiti a rappresentare i marginali, ma li ponga al centro dell’iconografia religiosa, destabilizzando il linguaggio del potere visivo. Qui si manifesta quella “verità foucaultiana” della pittura: il realismo non è solo un’operazione estetica, ma un atto di sovversione, un dispositivo di svelamento del rapporto tra autorità, corpo e rappresentazione. Le sue tele danno corpo alla marginalità non come tema pittoresco, ma come realtà viva e pulsante: i mendicanti, i popolani, i criminali diventano i protagonisti del sacro, sovvertendo le gerarchie estetiche e simboliche del tempo. Allo stesso modo, se anche con accenti diversi, Artemisia Gentileschi ha sovvertito i canoni della rappresentazione femminile, trasformando la propria esperienza di esclusione in un potente strumento di denuncia e riscatto attraverso l’arte. L’arte, dunque, che sa farsi outsider anche quando prospera al centro. Oppure l’arte marginale che, potente, sovverte le regole stabilite, dimostrando come la marginalità possa essere fonte di innovazione e creatività.

Come si evince da questo rapido e necessariamente parziale excursus, comprendere la storia della marginalità non significa semplicemente riportare alla luce figure dimenticate, ma interrogarsi sulla dinamica più profonda che regola l’esclusione e l’inclusione, e così facendo sui rapporti di forza che determinano chi viene posto ai margini e chi si trova al centro della scena storica. La storia, come ricorda Luciano Canfora, non procede in un moto lineare e progressivo, ma è teatro di continue lotte per l’egemonia, di crisi e di riconfigurazioni del potere. La marginalità, quindi, non è una condizione fissa, ma una variabile determinata dalle relazioni di dominio che plasmano le epoche. Studiare la storia dei marginali significa allora riconoscere che i rapporti di forza non sono statici, ma mutevoli, e che ciò che oggi è ai margini domani potrebbe occupare una posizione centrale, o viceversa. Proprio le analisi di Foucault, Agamben, Said, Butler e altri/e mostrano come la marginalità non sia solo una condizione subita, ma anche uno spazio di resistenza e trasformazione. Il margine, dunque, non è solo il luogo dell’esclusione, ma può diventare il laboratorio delle nuove idee e delle future rivoluzioni culturali, e in un tempo come il nostro, creare spazi di dibattito, riflessione e confronto su questi temi è di importanza fondamentale. La storia è dopotutto un campo di tensioni, in cui i confini tra inclusione ed esclusione non sono mai definitivi, ma costantemente ridefiniti dalla dialettica tra dominio e resistenza. Ogni epoca ha avuto i suoi marginali, e ogni epoca ha rielaborato il proprio rapporto con essi, oscillando tra repressione, assimilazione e riscoperta.

In questa prospettiva si inserisce Echi di Storia ‘25: non come semplice omaggio alla memoria dei marginali, ma come strumento critico per indagare il ruolo della marginalità nel processo storico, comprendendo i meccanismi stessi con cui le società hanno costruito e trasformato nel tempo le proprie gerarchie di inclusione ed esclusione. Attraverso conferenze, incontri, spettacoli e lectio magistralis, l’evento -dal 10 al 13 giugno- offrirà un’opportunità unica di scambio e approfondimento, coinvolgendo ospiti di spicco dalla Svizzera, dalla Francia e dall’Italia. Grazie alla collaborazione di volontari delle scuole e delle università cantonali e più in generale elvetiche, il festival sarà ancora una volta un’occasione di un proficuo dialogo interdisciplinare, dove storia, arte, economia, antropologia, urbanistica, filosofia e sociologia si intrecceranno per una comprensione più ampia del nostro tema e del nostro tempo.



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