Digitalizzazione manoscritti con l’AI: il caso dell’Ambrosiana

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Nel suo “Elogio degli amanuensi” del 1492, l’abate Giovanni Tritemio ammoniva contro l’invenzione della stampa, destinata a cambiare la quotidianità – e il business – dei copiatori, sostenendo che un libro stampato su carta fosse scarso e durasse al massimo duecento anni, mentre la pergamena era un supporto migliore e poteva arrivare a un millennio. Niente è eterno, ma ci si prova da sempre: oggi l’intelligenza artificiale potenzia la tutela del patrimonio librario, aprendo a nuove possibilità di divulgazione sicura dei manoscritti, così come degli incunaboli e altri stampati.

Soprattutto nel caso dei primi “la digitalizzazione permette lo studio del testo senza rovinarlo, rendendolo al contempo accessibile a chiunque desideri consultarlo”, spiega monsignor Francesco Braschi, viceprefetto della Veneranda biblioteca Ambrosiana di Milano, direttore delle Classi Slavica, Africana e Orientalis dell’Accademia Ambrosiana e professore all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. L’Ambrosiana già prima del 2020 si era adoperata per creare una propria biblioteca digitale, ora è stata resa disponibile online anche la collezione di manoscritti arabi, utilizzando una piattaforma AI powered che integra nativamente l’open standard IIIF.

Il progetto, chiamato “Arabic manuscripts in the Veneranda biblioteca Ambrosiana – The digital collection” è stato possibile grazie ai finanziamenti ottenuti partecipando a un bando di Regione Lombardia. La piattaforma utilizzata è Nainuwa del provider Treventus Mechatronics, una soluzione specifica per la gestione delle biblioteche e degli archivi digitali che integra funzioni di AI applicate al riconoscimento testuale, che avviene tramite un sistema HTR – Handwritten text recognition.

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Perché digitalizzare i manoscritti antichi

La digitalizzazione è una priorità per le istituzioni che dispongono di un patrimonio librario e desiderano tutelarlo pur mantenendo la possibilità di condividerlo con studiosi e appassionati. Considerando che in generale i rischi della gestione dei documenti cartacei sono molti anche in ambito contemporaneo, trattando di testi antichi è necessario alzare ulteriormente i livelli di sicurezza: “Se troppo sollecitati, i testi antichi si rovinano, soprattutto se sono scritti su carta. La digitalizzazione permette di tenerli al riparo e al contempo di ampliare e semplificare la possibilità di studiarli – spiega Braschi -. Fino al secolo scorso la forma principale di condivisione dei codici era, oltre alla consultazione in loco, il microfilm. L’Ambrosiana aveva abbondantemente praticato la riproduzione su microfilm e prima ancora, sin dal 1920, si spedivano agli studiosi foto su lastre di vetro”. Mettere online una collezione di manoscritti “la rende accessibile a tutti, chiunque può consultare i testi, presentati con una media risoluzione”.

Il progetto della biblioteca digitale dell’Ambrosiana è nato “prima della pandemia – ricorda Braschi -. Abbiamo già una raccolta di oltre mille manoscritti, soprattutto greci e latini. All’Ambrosiana abbiamo anche manoscritti siriaci, ebraici, italiani, in francese antico, etiopici, copti, sono circa trentottomila e ci piacerebbe arrivare a poterli rendere tutti fruibili online”. Un lavoro importante: “Prevediamo ci vorranno circa due decenni, considerando la delicatezza dei manoscritti, ma anche il tempo necessario e le risorse di personale e macchinari, che comportano un investimento che non possiamo permetterci come vorremmo. Riusciamo a svolgere questi incarichi grazie a sponsor o a bandi”.

La collezione araba digitalizzata con l’AI

Proprio un bando pubblico di Regione Lombardia ha dato il via al progetto di digitalizzazione della collezione di manoscritti arabi: “È cruciale oggi una conoscenza profonda delle culture di lingua araba. Il nostro archivio di manoscritti arabi è il più grande dopo quello della biblioteca Vaticana – sottolinea Braschi -. Abbiamo quasi 1800 manoscritti, ne abbiamo messi online 250 in poco più di due mesi, per rispettare i tempi del bando, e prevediamo di completare la collezione nei prossimi anni”. Le pagine digitalizzate in tutto sono circa 96mila.

I gioielli della collezione sono molti: “Abbiamo un antichissimo Corano manoscritto in calligrafia cufica che risale a prima dell’anno mille, ma anche un meraviglioso trattato di medicina scritto da un autore arabo cristiano con miniature di ambito persiano, una preziosissima traduzione dei vangeli del 1281 ad uso della chiesa copta e un libro di storie degli animali, simile a un bestiario medievale occidentale ma di tradizione araba, riccamente miniato. Abbiamo scoperto poi un codice rilegato con qualche pagina al contrario”, racconta Braschi. Testi che sono molto vari: “Comunicano il mondo arabo come un ambiente accogliente per diverse culture e differenti tradizioni religiose, aspetti molto importanti da conoscere per un corretto dialogo ed è fondamentale oggi diffonderne la conoscenza”.

Come digitalizzare i testi con l’intelligenza artificiale

Il processo di digitalizzazione del catalogo di manoscritti arabi è stato svolto con la piattaforma Nainuwa, un sistema di archiviazione digitale basato su intelligenza artificiale del provider Treventus Mechatronics, che integra nativamente lo standard open internazionale IIIF – International image interoperability framework: “La nostra biblioteca digitale precedente era basata su questo standard, quindi abbiamo voluto lavorare in continuità – spiega Braschi -. Con questi processi basati su AI non solo siamo riusciti ad avere le immagini, ma anche a digitalizzare il testo”. Grazie a un sistema HTR – Handwritten text recognition, il testo scritto a mano è stato estratto e trascritto, in modo da renderlo facilmente fruibile anche a chi non conosca la paleografia, cioè lo studio della scrittura antica manuale: “Il testo online presentato abbinato alle immagini del manoscritto è in arabo, ma essendo in caratteri digitali è molto semplice tradurlo con adeguati strumenti – racconta Braschi -. Il lavoro degli studiosi che hanno necessità di intervenire sui nostri manoscritti diventa quindi più efficiente”.

Per raccogliere le immagini sono stati usati scanner di tipo planetario dedicati alla scansione di documenti antichi, “con attenzione all’utilizzo della luce per non danneggiare le opere e la capacità di acquisire immagini anche senza aprire a centottanta gradi i codici, rispettandone la fragilità e seguendo tutti gli standard conservativi e scientifici del caso – ha aggiunto Braschi -. L’operazione va fatta manualmente, per gestire al meglio il manoscritto e valutarne i parametri”.

Segue poi “il delicato lavoro legato ai metadati, senza i quali l’immagine non comunica nulla. Dopodiché, è stata la volta dell’immissione nella piattaforma”, per estrarre il testo e realizzare la collezione digitale. Immessi anche quattro volumi di un catalogo scientifico pubblicato in tiratura limitata nei primi anni Duemila, “che grazie alla generosità delle case editrici Neri Pozza e Silvana Editoriale potranno ora essere consultati online – prosegue Braschi -, sono stati aggiunti anche collegamenti tra questi cataloghi e i singoli codici”.

Tecnologia e individualità, l’impatto sull’innovazione

Progetti come questo rappresentano la consapevolezza dei vantaggi di una corretta gestione documentale e archivistica con l’uso dell’innovazione, ma anche l’importanza del dialogo tra tecnologia e ambiti umanistici, nell’ampio contesto delle digital humanities. L’innovazione diventa uno strumento per approfondire lo studio delle discipline umanistiche, modificare le metodologie di indagine e portare a nuove scoperte in modo più efficace e semplice. Non un discorso a senso unico: “La tecnologia, nel nostro caso l’intelligenza artificiale, potenzia la capacità dell’operatore umano, ma non si può sostituire con lo strumento tecnologico il livello di competenza che si può acquisire solo con lo studio. Si rischia di cadere in grossolani errori – commenta Braschi -. L’AI, in particolare l’intelligenza artificiale generativa, porta spesso a una semplificazione della varietà dei contenuti. Diventa necessaria una componente di scelta unicamente personale, indispensabile per la ricerca e l’innovazione”.

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Del resto i manoscritti arabi, come altri al di fuori del sapere occidentale, furono voluti esplicitamente a Milano dal cardinale Federico Borromeo, che fondò la biblioteca Ambrosiana nel 1607. Un aneddoto riguarda in particolare dei testi etiopici, che all’epoca in città “nessuno sapeva tradurre. Un monaco si presentò come esperto e dunque fu preso per studiarli e insegnare la lingua. Finché a Milano arrivò un vero monaco di quelle terre e smascherò il truffatore – racconta monsignor Braschi -. Il cardinale però aveva molto voluto quei testi anche se non c’era nessuno che li poteva capire. Era lungimirante: qualcuno capace di farlo sarebbe arrivato, con il tempo. Un insegnamento al rispetto per le altre culture, anche se magari allo stato attuale non abbiamo gli strumenti per comprendere”.



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