Arsenii Mun e le “leggende polacche”

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credits Luca Pezzani

MANTOVA Cerchi in rete scampoli di una biografia ancora breve, d’altronde, 25 anni sono pochi; e ne trovi l’eco tonante di consensi che, a partire dal suo trionfo, nel settembre del 2023, all’edizione numero 64 del Concorso Busoni di Bolzano, lo ha catapultato nell’esclusivo firmamento delle cosiddette rising stars internazionali. Lo scorso sabato 1° marzo, finalmente, Arsenii Mun (spesso ripotato come Moon, chissà) faceva il suo debutto anche all’Auditorium Paganini di Parma, città di tappa nella fitta agenda di date che lo sta portando sui palchi delle maggiori Stagioni concertistiche italiane. Con il pianista pietroburghese, a dividersi gli applausi trionfali, al termine dell’esecuzione, era Daniel Smith, un concentrato di estro e di puntigliosa austerità alla guida di una Filarmonica Toscanini in gran spolvero. Sul leggio di una serata dedicata alle “Leggende polacche”, apriva il percorso di ascolto l’impaginato inquieto e fiammeggiante del Concerto op. 11 in mi minore di Chopin che la direzione articolata, a nervi tesi, del direttore australiano disegnava senza svenevoli indulgenze, con l’armatura marziale del suo ritmo puntato a dare il passo ad una linea di canto prima oscura poi sempre più rarefatta e scavata, plastica nell’attraversare colori e umori che dal sanguigno si spengono, insinuanti, presaghi, fino a tornare avvolti dalla notte. Al suo ingresso, in un incipit da subito più esitante che imperioso, Mun trovava, ad incastonarne la suggestione, l’alveo di un’orchestra per una volta non ancella in questa scivolosa partitura ma, al contrario, intensa (co)protagonista. Con essa, continuamente incalzata dal pungolo del direttore, Mun cercava, trovandolo, un dialogo rivolto, più che alla dimensione del concerto solistico, ad un ispirato, introverso camerismo: già nell’arabesco ascendente del commento dei violoncelli all’annunciarsi del tema emesso dal pianoforte, chiamati a stendere la tinta a questa straordinaria pagina, poi nel febbrile crescendo dei violini e degli archi tutti, con la temperie che da elegiaca si faceva ben presto arroventata, tanto da sommergere, sotto il peso della sua massa sonora, il flebile velluto dello strumento solista. Preziosa nelle intenzioni ma mai pienamente cristallina nella pronuncia del suono, mai sul fondo del tasto, in precario equilibrio sul filo teso di una vocalità flautata, la narrazione pianistica trovava più di un’ombra nell’emissione del suo canto, sacrificata dalla ricerca di qualche effetto di troppo e ovattata da uno smalto strumentale a tratti scheggiato, soprattutto là dove Chopin, oltre alle raffiche millimetriche e perlacee di un virtuosismo senza esitazioni, chiede quel senso di autentico  “maestoso” che accompagna l’intero primo movimento, anche quando ci si avvia alla febbrile strettoia della Coda finale. Una narrazione, quella di Mun, in punta di fioretto, sussurrata difficilmente oltre la soglia del mezzo forte, tanto introversa e leggera da smarrirsi in un calco affascinante quanto sommario di visioni, preziose se ammirate da lontano, più evanescenti ad uno sguardo più addentrato. Già qui, in terra chopiniana, il baricentro dell’ascolto si collocava nel territorio attorno allo strumento solista, nello smeriglio punteggiato di interventi parchi ma sagaci dei fiati, nelle folate degli archi o nell’incombente sentenziare delle percussioni. Perché, a dispetto delle ovazioni piovutegli al termine del Concerto, tanto da richiedergli due bis, era l’orchestra la protagonista in cattedra. Dionisiaca nel giro ossessivo della magnifica Orawa di Wojciech Kilar, nel loop inesorabile fatto di ostinata ricorsività, ritmo battente, nei quali, tuttavia, di tanto in tanto, qualcosa si spezza e l’incanto si rompe. Granelli di sabbia sotto la puntina di un vinile, il mondo fisso e al tempo in fuga catturato dal finestrino di un treno, il battito di ali di una farfalla prigioniera, il canto di pochi che, per aumentazione, diviene ebbra danza campestre. E, infine, epica nel grandioso affresco del Concerto per orchestra di Lutoslawski, universo di misteriosa, arcana bellezza rivestito dalla corazza di forme antiche – Intrada, Capriccio, Passacaglia, Toccata, Corale – e abitato da una moltitudine di temi del folklore polacco, lacerti crudi e ruvidi di resistenza e di inesorabile orgoglio identitario, frammenti di fiera, indomita bellezza da cui spargere, nel solco di un contrappunto ferreo, semi di speranza sul mondo dilaniato dai segni della guerra.

Elide Bergamaschi



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