Stop al nucleare iraniano, la strategia di Trump per convincere Israele e gli scenari

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Donald Trump ha promesso di mettere fine alla guerra in Medio Oriente non appena eletto, sostenendo di voler usare qualsiasi mezzo per arrivare al suo obiettivo, anche la questione nucleare iraniana. E ora, quando mancano cinque giorni dall’inizio della sua presidenza, sembra che dopo oltre un anno di negoziati guidati dall’amministrazione Biden si possa arrivare alla chiusura dello scontro tra Israele e Hamas. Due giorni fa il quotidiano progressista israeliano Haaretz ha detto che Trump si prenderà il merito dell’accordo di pace in Medio Oriente, ma che poi, nei prossimi mesi, dovrà anche assumersi le responsabilità. Ma per ora, Trump si prepara a una inaugurazione con la prima vittoria in tasca, dopo che nella conferenza stampa di Mar-a-Lago, in Florida, la settimana scorsa ha detto che «scatenerà un inferno» se Hamas non libererà gli ostaggi. Ed è proprio questa imprevedibilità che starebbe guidando la corsa verso un accordo: da una parte Hamas teme un’escalation, dall’altra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nonostante sia amico personale di Trump, teme che il presidente eletto possa fare di tutto per arrivare al cessate il fuoco, anche tagliare l’invio di armi a Israele. In realtà, fanno notare diversi osservatori, i termini dell’accordo tra le due parti sono gli stessi, quelli che da almeno un anno gli Stati Uniti cercano di far accettare e che più volte sono stati rigettati, in particolare da Netanyahu. Pare però che il fatto che l’amministrazione Biden abbia dato la possibilità molto inusuale a Steven Witkoff, l’inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente di Trump, di lavorare all’accordo prima dell’inizio della presidenza, abbia completamente cambiato la situazione: secondo Haaretz sarebbe stato proprio Witkoff a forzare il primo ministro israeliano ad accettare un accordo a cui si era opposto ripetutamente. Pare anche che Witkoff abbia detto a Netanyahu che non c’erano altre vie e che dando il suo ok avrebbe potuto presentarsi da Trump nei prossimi mesi e chiedere il via libera alla distruzione dell’arsenale nucleare iraniano, un altro tema molto difficile che la nuova amministrazione dovrà affrontare. «Mi piacerebbe vedere l’Iran avere molto successo. L’unica cosa è che non possano avere un’arma nucleare», ha detto Trump in un’intervista a novembre. Questo potrebbe presagire tre possibilità, scrive Foreign Policy: un accordo su tutte le questioni aperte con l’Iran (il suo programma nucleare, le guerre proxy e il programma di missili balistici); un accordo ristretto relativo solo al suo programma nucleare; o un attacco militare per eliminare il programma. E proprio la sua imprevedibilità è un asset centrale, scrive The Times of Israel. «Certe volte le sue minacce hanno un fondo di verità, certe volte no. Il problema è che non sappiamo se stia bluffando o no questa volta», ha detto al quotidiano conservatore israeliano una fonte anonima araba vicina alle trattative che si stanno svolgendo in Qatar e che sarebbero «allo stadio finale». Dall’altra è importante ricordare che Trump eredita una situazione positiva, preparata da un anno di viaggi costanti e discussioni approfondite da parte del segretario di Stato Antony Blinken e della sua squadra diplomatica.

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L’INCHIESTA

Inoltre l’amministrazione Biden ha contribuito all’indebolimento di Iran e Hezbollah, che all’inizio della crisi mediorientale hanno sostenuto Hamas. Proprio due giorni fa, nel suo ultimo discorso da presidente sulla politica estera, Joe Biden ha spiegato di essere «vicino a una proposta che ho delineato in dettaglio mesi fa e che finalmente è in fase di realizzazione». Ma se all’estero Trump sta raccogliendo i primi successi, negli Stati Uniti ci sono le prime tensioni interne: ieri mattina è stato pubblicato il primo volume dell’inchiesta del procuratore speciale Jack Smith: nelle 137 pagine che Trump ha cercato più volte di non far pubblicare si legge che se non fosse stato eletto presidente a novembre, il dipartimento della Giustizia americano avrebbe avuto tutte le prove per condannare per aver tentato di ostacolare i risultati delle elezioni del 2020. Smith, che si è dimesso la settimana scorsa, ha anche fatto sapere che dopo l’elezione di novembre ha deciso di lasciare decadere il caso, visto che un presidente non può essere perseguito dal dipartimento della Giustizia. C’è infine la questione delle nomine, terreno sul quale Trump sta testando la lealtà del partito, in particolare sui candidati più difficili: il segretario alla Difesa Pete Helseth,Tulsi Gabbard alla guida della Homeland Security e Rfk Jr., che potrebbe diventare il prossimo segretario alla Salute.

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