Le prime settimane della seconda presidenza Trump stanno mettendo in discussione principi fondamentali, alcuni dei quali sono alla base della solidarietà transatlantica e della sua formulazione nel Trattato del Nord Atlantico.
Per alcuni commentatori, quelli ottimisti, si tratta di atteggiamenti negoziali, volti a strappare agli interlocutori, considerati non più alleati, bensì controparti, concessioni generose, ma nulla cambierebbe sulla postura strategica. Per altri, i pessimisti, ci si trova di fronte a una cesura storica, orientata verso un accordo fra due imperialismi, quello cinese e quello statunitense (con una parte da comprimario per Mosca) per ridurre i paesi europei a un mero mercato da sfruttare.
I pianificatori militari non si possono permettere ottimismi, pertanto il ‘worst case scenario’ è quello su cui lavorare, anche nella considerazione che, ove la prima ipotesi si concretizzasse, il risultato sarebbe comunque positivo: quello di una accresciuta autorevolezza, che potrebbe anche condizionare atteggiamenti e decisioni vagheggiate oltre Atlantico. Elenchiamo dunque alcune carenze capacitive storiche dei paesi dell’Unione. Partiamo dallo spazio.
- Sorveglianza e controllo: esistono alcuni assetti nazionali e il Copernicus dell’Ue, nati prevalentemente per esigenze civili e in qualche modo federati (vedasi il centro satellitare di Torrejon). Troppo poco per garantire il flusso costante di intelligence che serve per un’operazione militare.
- Comunicazioni e connettività: la gestione dei moderni sistemi d’arma anche da remoto richiede una connettività con tempi di latenza del millesimo di secondo, che può essere assicurata solo da costellazioni satellitari in orbita bassa. Oggi Starlink non ha alternative e l’Ue sta lavorando al sistema IRIS2 con una disponibilità iniziale pianificata per il 2030: programma ambizioso a cui occorre assegnare priorità assoluta.
- Difesa antimissile: è recentemente circolata una valutazione che in questo segmento capacitivo l’Europa dispone di una copertura del 5%; in altre parole, un attacco come quelli recentemente sferrati dall’Iran contro Israele avrebbe potuto causare parecchie decine di migliaia di vittime. La Germania si è attivata proponendo l’iniziativa European Sky Shield, che ha finora suscitato l’interesse di una ventina di paesi, ma che è basata su sistemi USA e israeliani, senza il coinvolgimento delle industrie europee.
Si potrebbe proseguire citando le carenze operative dei paesi europei in tutti i domini: terrestre, navale (sopra e sotto la superficie del mare), aereo e cyber con un lungo elenco, da cui emergerebbe drammaticamente la frammentarietà della risposta delle industrie europee alle pressanti esigenze operative individuate dalle forze armate. In estrema sintesi la conclusione sarebbe che ci sono ampi spazi per una razionalizzazione della spesa militare, ma che questi spazi sarebbero comunque largamente insufficienti ad assicurare una autonomia strategica reale, che ci elevi al rango di interlocutore near peer, sia nel quadro di un rafforzamento dell’Alleanza Atlantica, dopo un inequivocabile chiarimento politico con Washington, sia in quello di potenza autonoma contrapposta agli appetiti esterni. Da qui la necessità impellente di un nuovo sforzo, peraltro già lumeggiato da Draghi nel suo rapporto sulla competitività, con un’esigenza finanziaria di 500 miliardi di euro nel decennio, corrispondente a un incremento di circa il 18% rispetto agli attuali livelli di spesa annui per la difesa della sommatoria dei paesi dell’Unione.
La necessità di un piano industriale europeo condiviso
È peraltro evidente che la disponibilità di tali rilevanti dotazioni finanziarie deve avvenire a fronte di una chiara visione progettuale dove i governi devono forzare le imprese a rompere i particolarismi che ne minano l’efficienza: occorre un piano industriale condiviso su scala europea, che valorizzi le eccellenze dei singoli, uscendo dalla visione che “tutti devono fare tutto”, per ricercare soluzioni in cui “ciascuno fa quello che sa fare meglio, nell’interesse di tutti”. In questo modo si salvaguarderebbero le capacità tecnologiche, non ci sarebbero conseguenze significative sui livelli occupazionale e si ottimizzerebbe l’output produttivo, sia dal punto di vista dei costi che da quello dell’efficienza.
Le recentissime dichiarazioni, per certi versi dirompenti, del capo del Pentagono Hegseth e poi quelle del Vicepresidente americano Vance alla Conferenza di Monaco hanno ulteriormente gettato una luce negativa sui rapporti tra gli Usa e gli alleati, generando reazioni che potrebbero essere l’avvio di un nuovo corso, con sviluppi impensabili fino a pochi giorni fa, come l’apertura di Ursula von der Leyen a una qualche forma di neutralizzazione di ulteriori fondi nazionali per la difesa nei confronti del Patto di Stabilità (provvedimento da tempo sollecitato dal Ministro Crosetto) e la riunione convocata a Parigi da Macron, invitando Gran Bretagna, Germania, Italia, Polonia e Spagna, ma soprattutto esteso a von der Leyen (segnalando in modo inequivocabile l’intenzione di dar finalmente vita a quell’Europa a più velocità che da tempo gli analisti indicano come la sola strada percorribile nel campo della difesa) e a Mark Rutte, Segretario Generale della NATO per sottolineare la volontà europea di non incrinare il rapporto transatlantico, ma anche per esplicitare la volontà di costruire finalmente quell’autonomia strategica che siamo in molti a non volere contrapposta agli Stati Uniti, ma che ci deve dare la statura di partner insostituibile e irrinunciabile.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link