Addio Skype, quando le nostre case digitali vengono demolite

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Pu-pe-pu, quaqu, pe-pu-pe, quaqu. Quel suono inconfondibile, un po’ subacqueo, che ha accompagnato innumerevoli conversazioni a distanza sta per diventare solo un ricordo. È difficile scrollarsi dalla memoria il jingle di avvio e il caratteristico squillo delle chiamate in arrivo di Skype, eppure presto apparterranno al passato. Quanti di noi hanno ancora su un vecchio biglietto da visita quel contatto ormai ricoperto dalla polvere digitale del tempo? In quel nome utente c’era un pezzo della nostra identità professionale, un indirizzo dove trovare la nostra presenza nel mondo da più di vent’anni. Ora quella casa digitale, da troppo tempo poco frequentata, verrà definitivamente demolita.

Microsoft ha ufficializzato che il 5 maggio 2025 chiuderà definitivamente Skype, spostando tutte le funzionalità e gli utenti su Teams. Gli account esistenti potranno essere migrati automaticamente, portando con sé contatti e cronologia delle chat. Niente di drammatico per chi era già passato ad altri servizi, ma c’è qualcosa di profondamente simbolico in questa chiusura. La trasformazione da software rivoluzionario a servizio residuale è stata graduale ma inesorabile, come succede a molte tecnologie che hanno cambiato il mondo.

Inquilini digitali senza diritti

Il caso Skype ci ricorda una verità fondamentale: online siamo tutti inquilini, mai proprietari. Abbiamo costruito identità, relazioni e memorie su piattaforme che possono essere smantellate con una semplice mail aziendale. L’illusione di possedere quegli spazi che abitiamo si scontra con la realtà dei termini di servizio che raramente leggiamo. Mentre una proprietà fisica ci appartiene (salvo casi limite di espropriazione per interesse pubblico), la nostra identità digitale è sempre in comodato d’uso. La gratuità apparente dei servizi nasconde il vero costo: rinunciamo alla stabilità e al controllo in cambio della convenienza.

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Nell’era dei social network e delle piattaforme cloud, nella fisica dei bit anziché degli atomi, il concetto di residenza digitale senza che ce ne rendessimo conto è diventato fluido e precario. Quanti di noi boomer hanno ancora accesso alle proprie foto su Flickr, ai post su MySpace, ai messaggi su MSN Messenger? Ogni volta che un servizio chiude, un pezzo della nostra storia digitale rischia di svanire. Succede a tutti, non preoccupatevi: anche quelli giovani che oggi vivono solo su TikTok e parlano con i reel su Instagram, un domani rimpiangeranno di aver visto evaporare la stagione della loro fioritura tra le sabbie dei bit soffiati via dal vento delle grandi corporation del tech. La digitalizzazione prometteva eternità ai nostri ricordi, ma li sta rendendo più vulnerabili che mai. In questo scenario, Skype rappresenta solo uno dei tanti esempi di un fenomeno endemico del mondo digitale: nulla è destinato a durare.

L’impermanenza digitale come condizione esistenziale

Gli strumenti digitali hanno una natura paradossale: più sono essenziali nella nostra vita quotidiana, più sono soggetti all’obsolescenza imposta dai mercati. Skype ha rivoluzionato il modo in cui lavoriamo e manteniamo relazioni a distanza, prima che Zoom, FaceTime e WhatsApp ne erodessero la rilevanza. Ora che Microsoft ha deciso che Teams è il futuro (per lottare a “marchi pari” con Meet di Google, senza disperdere l’energia su piattaforme divere), l’ultimo atto è segnato. Gli utenti non hanno voce in capitolo in queste decisioni, possono solo adattarsi o migrare altrove, come esondati digitali alla ricerca di un nuovo accampamento.

Il ricordo di Skype per un’intera generazione di boomer è legato al succo del primo gustoso frutto della cultura digitale di rete. Con Skype si sono per la prima volta annullate le distanze. Quella fidanzatina tedesca del mare, tornata nella sua madrepatria e impossibile da raggiungere causa esosi costi delle telefonate internazionali o la lentezza delle lettere affidate al nostro deficitario servizio postale, all’improvviso diventata una presenza quotidiana, praticamente una compagna di classe raggiungibile con un ring sul computer di casa sua. Anzi, con un Pu-pe-pu, quaqu, pe-pu-pe, quaqu. E l’emozione di poter chiamare numeri fissi in tutto il mondo? O avere un numero virtuale, scollegato dal nostro operatore monopolista di casa? E la gioia della prima videochiamata, con risoluzione da francobollo animato ma con la sensazione di essere entrati nel futuro? All’improvviso Rick Deckard erano accanto a noi, l’equivalente concettuale e sentimentale di Humprey Bogart per Woody Allen in Provaci ancora Sam.

Addio Skype, quando le nostre case digitali vengono demolite

 

C’è qualche consolazione? No. C’è poco da girarci attorno. Per questo adesso, lasciate che per una volta la citazione di questo cronista sia quella logora ma in questo caso molto appropriata di Blade Runner: “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire“.

La grande consolazione

Cosa rimane di questa nuova consapevolezza? La saggezza degli antichi. “Cosa hai paura di perdere, quando niente al mondo ti appartiene davvero?“, si chiedeva Marco Aurelio quasi duemila anni fa. La saggezza stoica sembra scritta appositamente per l’era digitale. Ci agitiamo per salvare i nostri dati, per preservare le nostre identità online, ma forse dovremmo accettare che l’impermanenza è la vera natura dell’esperienza digitale oltre che della vita umana. Il paradosso è semplice: investiamo emotivamente in strumenti progettati per essere sostituiti. Affidiamo i nostri pensieri più intimi, le nostre foto più preziose e le nostre conversazioni più significative a servizi che potrebbero non esistere tra cinque o dieci anni. Perché lo facciamo?

In realtà è il marketing che ci spinge a farlo. La tecnologia promette di preservare ogni frammento della nostra esistenza, ma in realtà amplifica la nostra vulnerabilità all’oblio. Ogni volta che una piattaforma chiude, migliaia di storie personali rischiano di svanire nel nulla digitale. Forum che se ne vanno lasciando evaporare le intenzioni e le riflessioni di milioni di individui. Le nostre tracce digitali sono scritte sull’acqua, non sulla pietra. In un mondo dove l’eternità digitale sembrava a portata di mano per tutti, la chiusura di Skype ci ricorda che persino le tecnologie più diffuse sono transitorie.

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Il motivo di questa grande sensazione di straniamento deriva da una semplice considerazione. La cancellazione progressiva degli spazi che abbiamo abitato online provoca un senso di sradicamento che ha pochi paralleli nel mondo fisico. È come se un quartiere intero venisse demolito senza preavviso, costringendo tutti gli abitanti a trasferirsi. E vicini di casa che si frequentano da decenni all’improvviso si perdono di vista per sempre. Succede per Skype, è successo per decine di altri servizi e siti, risalendo indietro probabilmente sino a Geocities (dove chi scriveva aveva creato la sua prima, piccola homepage). Anche se ci adattiamo rapidamente alle nuove piattaforme, qualcosa va inevitabilmente perduto in ogni migrazione. I collegamenti si spezzano, le abitudini si interrompono, i ricordi diventano meno accessibili.

Da internet decentralizzata a impero delle piattaforme

La parabola di Skype rispecchia perfettamente l’evoluzione di internet: da visione decentralizzata a sistema dominato da poche gigantesche piattaforme. Quando nacque nel 2003, Skype incarnava lo spirito pionieristico della rete: abbattere barriere, democratizzare la comunicazione, offrire alternative ai monopoli esistenti. Ironia della sorte, dopo essere stato acquistato da eBay e poi da Microsoft per 8,5 miliardi di dollari, è diventato parte di quel sistema centralizzato che originariamente sfidava. Dai 300 milioni di utenti del 2016 ai 36 milioni attuali, il declino racconta una storia di opportunità mancate e di cambiamenti nel panorama digitale.

Le grandi piattaforme hanno il potere di cambiare le regole del gioco in qualsiasi momento, lasciando gli utenti a subire le conseguenze. Nel 2011, quando Microsoft comprò Skype, nessuno poteva prevedere che un giorno sarebbe stato sacrificato sull’altare di Teams. Eppure, con il senno di poi, sembra l’ennesima conferma di un modello ricorrente: acquistare per assorbire, poi consolidare o eliminare. Lo sviluppo tecnologico segue spesso logiche di mercato che poco hanno a che fare con i bisogni reali e le sensibilità umane degli utenti.

Forse dovremmo vedere la chiusura di Skype come un promemoria della fragilità degli ecosistemi digitali. La nostalgia per i servizi che scompaiono dovrebbe spingerci a costruire alternative più resilienti, basate su protocolli aperti e decentralizzati. Nel frattempo, possiamo solo prepararci a dire addio a quel familiare Pu-pe-pu, quaqu, pe-pu-pe, quaqu che ha segnato un’epoca della comunicazione globale. Come tutti i suoni iconici del nostro passato digitale, a partire dalla suoneria dei primi Nokia, presto sarà solo un’eco nella memoria collettiva, mentre continuiamo il nostro peregrinare da una piattaforma all’altra, inquilini perpetui di case digitali sempre temporanee in attesa di scomparire anche noi, come i nostri dati, verso l’ultima destinazione: /dev/null.





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