Bloccati in Messico e senza vie legali: i migranti nel limbo

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Violenze, ritorsioni e lungaggini burocratiche: Medici Senza Frontiere racconta tutte le difficoltà di migranti e rifugiati in Messico. «L’assenza di meccanismi legali, dignitosi e sicuri può avere gravi conseguenze sulla salute e sul benessere di centinaia di migliaia di persone»

La testa china, le catene ai polsi e un aereo pronto ad attenderli: la foto dei migranti espulsi dagli Stati Uniti poche ore dopo il ritorno di Donald Trump ha fatto il giro del mondo, riaccendendo i riflettori sull’emergenza umanitaria nel Centro America fino a mobilitare anche la chiesa.

La Conferenza episcopale cattolica americana ha citato in giudizio l’amministrazione guidata dal tycoon per la sospensione degli aiuti ai rifugiati, ritenuta illegale e dannosa per i sistemi di accoglienza, e chiedendo inoltre il saldo delle spese sostenute da fine gennaio, quando i vescovi statunitensi avevano in carico all’incirca settemila rifugiati. 

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Nei giorni scorsi, infatti, la Conferenza episcopale cattolica americana ha citato in giudizio l’amministrazione guidata dal tycoon per la sospensione degli aiuti ai rifugiati, ritenuta illegale e dannosa per i sistemi di accoglienza, chiedendo inoltre il saldo delle spese sostenute da fine gennaio, quando i vescovi statunitensi avevano in carico all’incirca settemila rifugiati. Una presa di posizione che però non è piaciuta al Dipartimento di Stato, che lo scorso 26 febbraio ha sospeso con decorrenza immediata tutti i finanziamenti federali che dal 1980 garantivano supporto al reinsediamento dei rifugiati e assistenza nella ricerca di un lavoro, nei primi novanta giorni di permanenza negli Stati Uniti.

Il timore di venire intercettati dalla polizia dell’Immigrazione ha costretto molte persone a rinunciare ad uscire di casa persino per andare a messa, sostengono dalla Conferenza episcopale. Un ulteriore elemento di instabilità all’interno di un contesto in cui i diritti umani vengono continuamente violati o messi in discussione, con le persone costrette a lottare per la sopravvivenza mentre tutt’attorno imperversa la guerra tra bande per il controllo del mercato della droga.

Chi fugge 

Kevin, nome di fantasia, ha 22 anni e ha lasciato la sua casa di Huila, nel sud della Colombia, per scampare al rastrellamento delle forze paramilitari impegnate nella guerriglia per il controllo del traffico di stupefacenti: «Avevo una vita normale, andavo all’università e giocavo a calcio, ma la violenza dilagante mi ha costretto a fuggire». Il giovane si trova ora in Messico, intrappolato in questo limbo a cui nessuno può scampare pur di coltivare la speranza di un futuro a stelle e strisce.

A raccogliere la sua storia è il team di Medici Senza Frontiere (Msf), presente nel paese da quarant’anni e, dal 2012, impegnato nell’assistenza a migranti e rifugiati. «La maggior parte delle persone proviene da Venezuela, Colombia e Haiti, ma molti arrivano anche dall’Africa e dall’Asia» sottolineano da Msf, specificando come, negli ultimi anni, ci sia stato un incremento di donne che viaggiano da sole o con bambini al seguito, un fattore che ha aumentato notevolmente gli episodi di torture e violenze sessuali (774 casi accertati nei primi otto mesi del 2024, una cifra record).

«Il dolore, la disperazione e la paura sono diffusi tra i nostri pazienti. In molti ci hanno raccontato di aver investito tutti i propri risparmi per ottenere un passaggio legale verso gli Stati Uniti facendo richiesta di asilo». Natasha, altro nome di fantasia, ha 30 anni e si trova attualmente nel sud del Messico.

Ha lasciato l’Honduras assieme ai suoi tre figli, dopo essere stata vittima di estorsione e di abusi da parte delle gang locali. «Quando hanno messo gli occhi su mia figlia di 12 anni ho capito che la situazione non era più sostenibile e ce ne siamo andati», ha raccontato.

Sebbene una serie di lungaggini burocratiche le stia impedendo di presentare domanda d’asilo attraverso canali legali, il suo desiderio rimane intatto: stabilirsi in un posto in cui poter vivere in pace e dove i suoi figli possano andare a scuola.

Campo minato 

Per chi fugge, il Messico appare un campo minato, tra i rischi di finire vittima delle violenze delle bande criminali e i tempi necessari all’ottenimento del permesso di soggiorno.

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Uno dei primi provvedimenti dell’amministrazione Trump è stata infatti la sospensione dell’app CPB One, il sistema che dal 2020 consentiva la prenotazione degli appuntamenti per avviare le procedure di asilo negli Stati Uniti e diventato, durante l’era Biden, l’unico strumento di fatto funzionante, utilizzato da oltre un milione di persone soltanto nel 2024.

«L’assenza di meccanismi legali, dignitosi e sicuri può avere gravi conseguenze sulla salute e sul benessere di centinaia di migliaia di persone che attraversano l’America latina», dichiarano da Msf. Una delle conseguenze più immediate è stato l’incremento delle cosiddette carovane, gruppi di persone che viaggiano assieme nel tentativo di difendersi dai rischi di violenze e ritorsioni lungo il cammino. Il risultato, però, molto spesso è proprio quello di rimanere “impantanati” ed esposti a una serie di pericoli: come afferma Herbert, direttore del rifugio “Buen Pastor” di Tapachula, «ci sono persone che hanno sofferto molto lungo la strada, respinte dalla Polizia Migratoria, e famiglie che invece hanno atteso invano un appuntamento per un intero anno».

Le deportazioni 

Il passaggio di consegne a Washington ha innescato fin da subito un incremento di deportazioni dagli Stati Uniti al Messico, stimate in oltre quattromila dal 20 al 26 gennaio scorso. «Quando ho saputo della vittoria di Trump mi sono sentito scoraggiato e ho abbandonato l’idea di tentare l’ingresso in America», racconta Mamadou, 33 anni, fuggito insieme alla sua famiglia dalla Guinea Equatoriale dopo il colpo di stato.

«Non credevo che la rotta migratoria fosse così complicata: dal Brasile abbiamo attraversato Bolivia, Peru, Ecuador e Colombia. Adesso che il sogno di andare negli Stati Uniti è definitivamente tramontato, abbiamo fatto domanda per restare in Messico». Mamadou parla dalla clinica gestita dallo staff di Msf: dopo mesi di stenti, fisici e psicologici, l’unica certezza è di aver contratto la malaria. Il permesso di soggiorno, invece, sembra dover aspettare ancora a lungo.

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