Dazi Trump, alta tensione tra Zaia e Salvini

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Acque agitate, in casa Lega, a dispetto dei reiterati proclami di concordia lanciati dal segretario Matteo Salvini. Stavolta a innescare una dialettica interna tra il vicepremier e alcuni autorevoli esponenti del partito è stata, sorprendentemente, la questione della guerra commerciale che il presidente Usa Donald Trump sta intraprendendo nei confronti dell’Europa, oltre che di altre nazioni. Come è noto, Salvini sta approfittando della difficile situazione in cui si trova la premier Giorgia Meloni, stretta tra gli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Ue e la vicinanza politica all’inquilino della Casa Bianca, per manifestare in modo sempre più aperto la propria lealtà al tycoon americano, approvandone anche la politica profondamente protezionistica.

Ma proprio su questo punto sono emerse delle perplessità e delle critiche all’interno del Carroccio, sia in forma aperta che sotterranea, che però hanno mostrato ancora una volta che la linea sovranista propugnata dal segretario continua a generare dei mal di pancia. A parlare in modo chiaro è stato quello che la maggior parte degli osservatori considera il contendente più plausibile per la leadership della Lega, e cioè il governatore del Veneto Luca Zaia, il quale ha criticato senza mezzi termini i dazi annunciati da Trump prima in un’intervista resa a Repubblica, poi a margine di un’iniziativa a Marghera.

«Siamo assolutamente preoccupati», ha detto, «perchè comunque non fanno bene. Li abbiamo subiti anche in questi anni con le amministrazioni Obama e Biden, oggi c’è questo annuncio da parte di Trump. Siamo il più grande mercato del mondo, 450 milioni di abitanti, immagino che gli Usa non possano rinunciare a questo mercato». In precedenza Zaia aveva dichiarato che la sua regione, ad esempio, non sarebbe in grado di sostenere dazi pesanti come quelli annunciati da Trump: «Gli Usa sono un mercato di elezione per molte nostre aziende del turismo, dell’agroalimentare, dello sport system, del mobile, dell’high tech, dell’aerospazio, e di molti altri settori ancora. Gli Stati Uniti sono uno dei principali partner commerciali del Veneto, l’Unione europea deve rispondere in maniera unita, ma la vedo debole, afona, non autorevole. E mi dispiace constatarlo, da europeista».

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Seppure in modo più velato, anche il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari ha manifestato perplessità sulla linea Salvini, trovando sulle pagine dei giornali quello che verosimilmente era stato uno sfogo confidenziale con un cronista. Molinari, infatti, avrebbe affermato che la politica estera del Carroccio è condotta in solitudine dal segretario, e che il 90 per cento del partito non sarebbe d’accordo con lui.

Nella mattinata di ieri, poi, il capogruppo leghista ha diffuso una nota per sconfessare il retroscena galeotto del Giornale, aggiungendo che «i tentativi di alimentare tensioni nella Lega continuano da anni ma, anche questa volta, non daranno risultati». Tutto ciò conferma, in ogni caso, la divaricazione che si è già creata tra i settori leghisti più vicini alle istanze del territorio e ai ceti produttivi del Nord, già in atto da tempo ed emersa nell’ultimo congresso lombardo, quando il neoeletto segretario Massimiliano Romeo ha indicato chiaramente come priorità il Nord. Le critiche ai dazi, in quest’ottica, risultano coerenti alla preoccupazione di tutelare gli interessi della piccola e media imprenditoria del Nord, in particolare del Nordest.

Da parte sua, Salvini sembra non preoccuparsi troppo di queste voci e continua a spingere sull’acceleratore del sovranismo, tanto che ieri, nel pomeriggio, ha diffuso delle foto e un filmato di un suo colloquio con l’ex- candidato alla presidenza della Romania Calin Georgescu, fermato dalle autorità giudiziarie di Bucarest dopo l’annullamento delle presidenziali dello scorso dicembre, in cui Georgescu aveva prevalso.

Il fermo di quest’ultimo è stato ritenuto da Salvini «un attacco alla democrazia gravissimo e senza precedenti, uno schiaffo di stampo sovietico alla volontà popolare e alla libertà di pensiero e di parola».

A Palazzo Chigi, però, annunciano di alzare la quota delle spese militari per la Nato al 2,5% del Pil, cosa che potrebbe suscitare quanto meno freddezza da parte del leader leghista.



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