Pozzo Prà Tiro: la Procura abbandona, i Comuni archiviano

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Il caso è archiviato. A quattro anni e mezzo dalla contaminazione da Pfos, il perfluoroottansulfonato, del Pozzo Prà Tiro, le istituzioni locali hanno alzato definitivamente le mani. Calato un decreto d’abbandono sull’inchiesta contro ignoti aperta per inquinamento di acque potabili e infrazione alla Legge federale sulla protezione delle acque, e scesa la prescrizione sui reati alla lente della Procura, a inizio febbraio la delegazione del Consorzio Servizio idrico del Basso Mendrisiotto (Sibm) ha deciso di non proseguire la sua azione, né in sede penale, rinunciando ad appellarsi alla Corte dei ricorsi penali, né in quella civile.

Una scelta che potrebbe avere il sapore della resa, ma che è di fatto la lucida conclusione a cui si è giunti alla luce della consulenza giuridica recapitata di recente. Margini per far valere i propri diritti ormai non ve ne sono più. La conclusione del Consorzio è amara: anche la vicenda del Pozzo Prà Tiro dovrà essere iscritta (come il Pozzo Polenta a Morbio Inferiore) tra i casi che non hanno visto riconoscere un indennizzo (finanziario e morale) a chi ha patito il danno. Ovvero la popolazione della regione.

Adesso si confida nella bonifica

Ormai non rimane, quindi, che un unico appiglio, lo stesso a cui ci si è aggrappati per il pozzo di Morbio, la procedura amministrativa. Iter che pone le fondamenta sul voluminoso quanto dettagliato rapporto firmato, nel settembre scorso, dalla Spaas, la Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo. Il dossier, chiamato a fare chiarezza su origine, epoca e diffusione dei composti Pfos nella falda, è stato consegnato da una parte al Ministero pubblico e dall’altra all’Ufficio dei rifiuti e dei siti inquinati, così da avviare l’iter previsto dall’Ordinanza sui siti contaminati (OSiti), d’intesa con l’Ufficio federale dei trasporti. Questa procedura, come confermato a suo tempo al Servizio idrico Basso Mendrisiotto, darà modo di definire obiettivi e urgenza del risanamento. E la bonifica dell’area dell’acquedotto avrà la missione di eliminare del tutto gli effetti dell’inquinamento.

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Pochi i punti fermi

Quando, tra il giugno e il luglio del 2020, i Comuni di Chiasso e Balerna, la Sezione protezione aria, acqua e suolo e il Consorzio Servizio idrico del Basso Mendrisiotto hanno presentato le loro denunce, qualche speranza di andare a fondo della faccenda c’era ancora. La ricostruzione, passo dopo passo di quanto accaduto negli anni nella zona del Prà Tiro, consegnata dall’inchiesta della magistratura – coordinata dalla procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis – ha mostrato con chiarezza che non sussistevano più gli spazi per procedere oltre. L’unica certezza, emersa fin dalle prime battute delle indagini condotte dagli specialisti incaricati dalla Spaas e ribadita nel decreto d’abbandono depositato a inizio febbraio, è che “la fonte più probabile dell’accertato inquinamento da Pfos appariva essere costituita dall’utilizzo di schiume antincendio”. Infatti, gli accertamenti non ne hanno rilevate altre.

Le risultanze dell’inchiesta

Dal 2000 in poi, o almeno finché negli schiumogeni era presente Pfos (bandito nel 2011), la sostanza ha avuto modo di penetrare nel terreno durante le diverse esercitazioni effettuate regolarmente dai Corpi pompieri nell’area ferroviaria nelle vicinanze del pozzo. A cui si aggiunge l’intervento, il 5 febbraio 2011, per il deragliamento di cisterne ferroviarie di gas a Chiasso (ma in quel caso si era fatto capo legittimamente ai mezzi antincendio). Le analisi eseguite nel 2020 dalla Spaas hanno confermato, infatti, la presenza dell’inquinante in concentrazioni rilevanti, 1,1 microgrammi al litro.

Passando in rassegna i diversi episodi, la Procura ha accertato che nei casi in cui, prima del 2011 (in particolare nel 2002 e nel 2007), si sono utilizzate schiume ricche di quella sostanza, non si può perseguire alcun reato ipotizzabile, proprio perché è intervenuta la prescrizione dell’azione penale. Prescrizione che, in base alle contestazioni, scatta dai 7 ai 15 anni dopo.

Sul treno di spegnimento non funzionava

In alcune circostanze, invece, non vi è prova fosse presente Pfos, mentre in altre vanno esclusi l’intenzionalità di aver inquinato l’acqua con sostanze nocive alla salute o addirittura l’uso di schiumogeni in seguito vietati. Del resto, come emerso nel corso dell’inchiesta, dal 2018 i Pompieri della regione non hanno fatto più riferimento a prodotti emulsionanti, benché consentiti, perché consapevoli del rischio di inquinamento. Tant’è che negli anni si è arrivati a smaltire riserve di prodotti mai utilizzati. Anche le Ferrovie, dotate di un Corpo pompieri e di treni di spegnimento, hanno confermato che già nel 2010 avevano abbandonato i prodotti contenti Pfos. Senza contare che nel caso del convoglio di soccorso stazionato a Chiasso, non si è mai fatto capo alla cisterna di schiumogeno: l’impianto di erogazione, si è stabilito, non funzionava.

Va detto, poi, che nel 2000 era stato lo stesso Cantone a chiedere che nel comprensorio del Mendrisiotto si potesse disporre di schiumogeno supplementare vista la presenza di diversi depositi di carburante. In conclusione il decreto di abbandono annota altresì che “non vi è indicazione alcuna che lo schiumogeno fornito (ai pompieri, ndr) non fosse conforme alle normative vigenti all’epoca della fornitura e dell’effettivo utilizzo”. Quando è stata usata, insomma, la schiuma con Pfos era legale.



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