Nöl Collective, la moda è militante

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Indossare storie, vestire un abito che racconta chi l’ha creato, la tradizione tessile e la terra da cui proviene. Un capo che unisce passato e presente con uno sguardo proiettato al futuro. È il progetto Nöl Collective, avviato nell’estate del 2020 nel cuore della Palestina, che mette insieme femminismo, cultura tradizionale, moda etica e giustizia.

Nöl, che significa telaio in arabo, rende omaggio all’artigianato di Gaza e dei Territori palestinesi.
Al festival Middle East Now di Firenze, dal tema Ecologies of Resistance, la fondatrice Yasmeen Mjalli, di origini palestinesi, nata negli Stati Uniti ora residente in Palestina, ha presentato il progetto e la borsa disegnata e ricamata apposta per la manifestazione. Un papavero al centro, simbolo nazionale di resistenza, e la scritta in arabo «su questa terra», da un verso del poeta Darwish. La grafica serigrafata a mano a Ramallah, i fiori ricamati con il tradizionale punto croce palestinese realizzati dalle donne di alcuni villaggi intorno a Nablus e Ramallah. Nöl collabora con laboratori a conduzione familiare, studi artigiani e cooperative femminili che portano avanti le tecniche tradizionali di tessitura, ricamo e sartoria. Un mestiere che assume un valore politico nel preservare una cultura che rischia di scomparire. Abbiamo incontrato Yasmeen Mjalli.

Com’è nato Nöl Collective?

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Durante l’isolamento c’è stato il tempo per riflettere, ero già nel campo della moda, ma non ero contenta. Ho deciso di formare un collettivo per fare moda in modo giusto, secondo i miei valori, non incentrata su una sola persona, né sul profitto, ma sulla comunità, sulle persone che la producono, sui capi d’abbigliamento. Soprattutto etica, tutti devono essere pagati in modo equo, oltre a essere consapevoli dei materiali utilizzati e della loro provenienza. Il progetto vuole creare un archivio dell’artigianato palestinese attraverso la moda, come il tatreez, il ricamo tradizionale più famoso. Originariamente il lavoro artigianale era praticato nelle zone rurali, ora è comune in tutta la diaspora palestinese. Ci sono mestieri meno conosciuti che rischiano di scomparire, come la tessitura a mano di tappeti e filati, a causa delle espulsioni, dell’occupazione, e della difficoltà di importare materiali. L’idea è stata utilizzare queste attività per creare capi di abbigliamento, per educare le persone e garantire un’attività alle donne. Lavoriamo con tanti gruppi, prevalentemente femminili. Il ricamo e la tessitura sono fatti a mano su telai a terra, realizzati con tubi e altro materiale di recupero. Sul pavimento si tesse insieme, è un mestiere che crea socialità, riunisce il vicinato, crea un legame e diventa occasione per condividere storie. Nel collettivo ci sono anche due fratelli, tessitori di Gaza, che realizzano stoffe per abiti tradizionali palestinesi, e altri sarti. Abbiamo lavoratori di Ramallah, Gaza, Nablus, Hebron, e da tutta la Palestina.

Foto dal progetto «Nöl Collective» ideato da Yasmeen Mjalli

In che senso è una cooperativa femminista?

Per femminismo s’intende anche dare alle donne i mezzi per mantenersi. Vogliamo aiutare ricamatrici e tessitrici e sostenerle finanziariamente soprattutto in questo momento, vogliamo pagare in modo equo, assicurandoci che ricevano la giusta retribuzione per la quantità e il valore di lavoro che svolgono. È femminista anche nel senso che le donne sembrano essere le depositarie delle tradizioni nazionali della cultura, hanno un modo speciale di farsene carico, bisogna dar loro il credito che meritano e assicurare uno stipendio giusto. È femminista in modo intersezionale, collegato alla politica, come l’occupazione lo è all’ambiente. Inoltre è importante fare attenzione alla scelta dei materiali, cotone, seta, e ridurre l’uso dell’acqua.

Riuscite a lavorare anche con la guerra in corso?

Sì. Quando è iniziato il conflitto molte persone hanno perso il lavoro. Abbiamo clienti negli Stati Uniti e in Europa e possiamo continuare a vendere, siamo cresciuti. Abbiamo coinvolto molte ricamatrici e ricevuto richieste da donne i cui mariti hanno perso il lavoro. Hanno bisogno di soldi. Alcune hanno imparato a ricamare. Molti uomini, fratelli, mariti, padri, operai edili che lavoravano in Israele ora non sono più ammessi, quindi sono le donne a dover mantenere la famiglia. Prima della guerra lavoravamo con tre ricamatrici, ora sono circa quaranta, c’è molta richiesta. Stiamo cercando di produrre il più possibile per assicurare loro un mestiere. Riceviamo ordini, ma la guerra rende più difficile muoversi. Qualche settimana fa dovevamo inviare il materiale alle ricamatrici, ma non potevamo raggiungerle per via delle strade chiuse. In questa fase è ancora più difficile spostare materiali, riceverli e spedirli perché non abbiamo il controllo dei nostri confini, ma è Israele ad averlo. Spesso i voli sono cancellati, la posta non parte e non arriva. A causa della guerra è anche più difficile ricevere denaro dai clienti per via delle restrizioni sulla quantità di soldi che entra in Palestina, questo vale anche per i tessuti naturali che importiamo dall’India. Un carico è rimasto bloccato un mese e mezzo.

Chi sono i vostri clienti?
Sono palestinesi della diaspora e bianchi americani ed europei. Abbiamo riscontrato un sostegno comune.

Cosa intende per femminismo intersezionale legato anche all’occupazione?

Bisogna pensare in modo intersezionale alla moda e alle persone che hanno realizzato l’indumento. Pensare a quali realtà influenzano le loro vite, è intersezionale. Nel caso di una donna palestinese, se è musulmana, vive in Cisgiordania… queste storie vanno raccontate, i clienti devono creare un contatto con le persone che producono i nostri abiti.

Come si crea questo legame?

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Saldo e stralcio

 

Attraverso i social media. Facciamo spesso video mostrando chi confeziona i capi. Raccontiamo le storie, i luoghi, le esperienze sotto l’occupazione, la realtà dietro ai vestiti. Vogliamo che tutti siano consapevoli, informati ed educati. Per noi non si tratta di vestiti, ci interessa la narrazione. La moda è un pretesto interessante per raccontare una storia ed educare. In questo modo si impara qualcosa di unico sull’occupazione.

Fa politica attraverso la moda?

Esattamente, è politica. Abbiamo dei ricami tradizionali da generazioni, una sorta di biblioteca di motivi, diversi in ogni città, applicati agli abiti, che rivelano la provenienza, come il cipresso della regione di Ramallah e gli uccelli di Gaza.

Una sorta di firma della città?

Esatto. Dopo la Nakba del 1948 quando le nostre città sono state cancellate, ciò che è rimasto sono i motivi. Possiamo dimostrare che sono esistite le piante e i villaggi distrutti, i motivi li documentano. È come un archivio e sono le donne a curarlo attraverso il ricamo. Ecco cosa intendo con intersezionale.

Foto dal progetto «Nöl Collective» ideato da Yasmeen Mjalli
Foto dal progetto «Nöl Collective» ideato da Yasmeen Mjalli


Potete unire tradizione e futuro, affondata nelle radici con uno sguardo contemporaneo…

Usiamo silhouette contemporanee, pantaloni, giacche e felpe con cappuccio, a cui applichiamo elementi tradizionali come ricami speciali fatti a mano. Abbiamo sempre usato il Majdalawi di Gaza, un tessuto tradizionale a righe, largo 60 centimetri, blu o nero con due strisce, viola, rosa o rosso. Prima della guerra c’erano due o tre laboratori che lo tessevano per i costumi tradizionali palestinesi. Dopo la guerra gli studi e le case sono stati distrutti, i tessitori sfollati. Uno di loro è stato ucciso. Ora la pratica è scomparsa, ma dopo l’inizio della guerra, con tante donne che avevano bisogno di lavoro e soldi, alle camicie abbiamo aggiunto molti più ricami perché volevamo farle lavorare. Abbiamo sempre le stesse silhouette, ma la natura del design cambia in base alla realtà della Palestina, riflette ciò che accade. Bisogna archiviare tutto questo lavoro perché è una storia del Paese. Stiamo provando a creare una collezione, ma è difficile perché non riusciamo a procurarci il tessuto dall’India. A Gaza è impossibile lavorare, ma nei mesi scorsi siamo riusciti a far evacuare un tessitore, sua moglie e i suoi figli, e i figli del fratello, e lo abbiamo aiutato ad aprire un nuovo studio grazie ai soldi arrivati dai clienti attraverso una raccolta fondi.

I vostri prodotti sono legati alle radici palestinesi.

Contributi e agevolazioni

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In genere non usiamo simboli nazionali, tipo l’anguria o la keffiah, perché non vogliamo trarre profitto da simboli della liberazione. Cerchiamo di creare i nostri disegni. Abbiamo iniziato a Ramallah, poi ho imparato che le varie regioni della Palestina sono esperte in mestieri diversi. Ora lavoriamo con più di un centinaio di persone.



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