Il Green Deal europeo ritorna dalla finestra e ci costerà 100 miliardi

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La Commissione europea ha nuovamente lanciato la grande promessa di reindustrializzazione, questa volta sotto le mentite spoglie della “produzione verde”, nel tentativo di salvare capre produttive e cavoli ideologici. Mercoledì 27 febbraio, la Commissione ha presentato il suo ambizioso “Clean Industrial Deal”, un pacchetto da 100 miliardi di euro per promuovere la produzione “pulita” e la riduzione delle emissioni (decarbonizzazione). Il documento appare un costoso tentativo di riparare in parte i danni causati dalle precedenti scelte politiche, che hanno indebolito il tessuto industriale europeo, sacrificandolo sull’altare delle ideologie ambientalista e del Green Deal.


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Il nuovo piano viene presentato come un’ancora di salvezza per le industrie tradizionali, offrendo finanziamenti per la decarbonizzazione e lo sviluppo di tecnologie pulite. In pratica, si tratta di un massiccio trasferimento di denaro pubblico (a debito) che certamente non risolverà il problema strutturale che ha portato alle delocalizzazioni aziendali e alla perdita di competitività globale. La spina dorsale finanziaria di questo piano è la nuova Banca per la decarbonizzazione industriale, finanziata con 20 miliardi di euro dal “Fondo per l’innovazione dell’UE” e 30 miliardi di euro dai contributi volontari dagli stati membri.


A ciò si aggiunge una riforma del programma “InvestEU, che mira ad attrarre 25 miliardi di euro di investimenti privati, i quali si erano alquanto preoccupati per i possibili rallentamenti dei piani europei sul Green Deal, più altri 25 miliardi di euro di entrate previste dal mercato del carbonio. In realtà ci troviamo di fronte a una politica che si basa esclusivamente su sussidi e normative protezionistiche, invece di consentire all’industria di rilanciarsi attraverso costi per l’energia più economica e una tassazione più bassa. Uno dei maggiori ostacoli alla competitività europea infatti resta l’elevato costo dell’energia, conseguenza diretta delle politiche di transizione verde rincorsa con la furia di Timmermans e la complicità di Von der Leyen negli anni recenti. 


Nel suo discorso di mercoledì ad Anversa, in occasione del lancio del “Clean Industrial Deal”, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha riconosciuto la gravità della situazione dicendo che «i costi di produzione sono aumentati, soprattutto per le industrie ad alta intensità energetica. La domanda di prodotti verdi è diminuita e alcuni investimenti si sono trasferiti in altre regioni». Tuttavia, anziché correggere una politica energetica chiaramente costosa e fallimentare, l’UE insiste su ulteriori sussidi e meccanismi di compensazione che non riescono ad affrontare il problema fondamentale. A ciò si aggiunge la strategia di approvvigionamento congiunto di materie prime essenziali, ispirata al modello di acquisizione del vaccino Covid-19. 


Il Commissario all’Industria Séjourné ha spiegato senza mezzi termini che si vuol «fare con litio e cobalto quello che abbiamo fatto con i vaccini Covid». Non comment, forse il giovane macronista non ha ben chiaro quali e quante oscure vicende, tuttora sotto indagine, abbiano caratterizzato gli acquisti centralizzati dei vaccini.  Il “Clean Industrial Deal” include anche semplificazioni e alleggerimenti nella burocrazia climatica per alleviare l’onere normativo sulle aziende che investono in tali settori o si alimentano con tali fonti energetiche. L’attenzione alla riduzione della burocrazia non significa affatto che le tutele ambientali siano passate in secondo piano, nessuna retromarcia sugli obiettivi climatici.


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L’ennesima riproposizione del Green Deal fà insistere la Von der Leyen sul fatto che la transizione verde sarà una fonte di occupazione ed «entro il 2030, gli obiettivi dell’UE in materia di energia rinnovabile genereranno oltre 3,5 milioni di nuovi posti di lavoro». Forse sarà pure vero che in Europa nei prossimi cinque anni avremo 700mila posti di lavoro ogni anno generati dalle politiche ambientaliste, ma saranno generati dal sostegno pubblico e sostenuti dall’esborso di ciascuno di noi. Stupisce però che né la presidente della Commissione, né il Commissario all’Industria abbiano fatto cenno alla distruzione delle industrie tradizionali colpite oggi e nei prossimi anni dalle infauste politiche verdi. Vedremo dunque tra cinque anni se accadrà come oggi, cioè a fronte delle verdi previsioni, il saldo con le chiusure e licenziamenti sarà negativo. L’Europa si trova di fronte a un dilemma: continuare a scommettere su un modello basato su sussidi, burocrazia e normative ambientaliste, oppure adottare un approccio pragmatico che garantisca energia accessibile, competitività industriale e occupazione sostenibile, senza accrescere debito pubblico. 


Come finanziamo il “Clean Industrial Deal? Ovviamente o si chiederanno soldi agli Stati, o li obbligheranno a pagare secondo i dettami di Bruxelles o si contrarrà (di fatto) debito comune che poi dovremo pagare tutti noi. Insomma giralo come si vuole, sempre Pantalone, davanti o dietro, dovrà pagare. Ulteriore conferma dell’intesa indicibile tra Socialisti, Verdi e Popolari che ha impedito sinora di far luce sullo scandaloso finanziamento delle lobbies e ONG ambientaliste che abbiamo descritto nelle scorse settimane sulla Bussola. Inoltre, siamo alla ulteriore prova del menefreghismo di Bruxelles nei confronti del voto espresso dai cittadini a giugno scorso di giugno ed i successivi voti in Austria, Germania quando la volontà popolare ha protestato contro élite che rincorrevano ideologie ambientaliste e mitologiche sostituzioni etnico-islamiche. Preoccupa l’ennesimo segnale di sudditanza dei Popolari Europei verso ogni desiderio e follia di Socialisti e Liberali. Evidentemente il potere vale più di ogni altra cosa, anche dell’ascolto e del servizio a cittadini e imprese. 




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