«Io, con l’ossigeno in ospedale. Una prova anche per la fede»

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Il cardinale Gualtiero Bassetti, già presidente della Cei, riceve l’abbraccio della gente in una recente visita ad Arezzo – Avvenire

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«Ma che ci faccio ancora a letto? Ho le Cresime stamani. Devo alzarmi…». Il cardinale Gualtiero Bassetti ha ancora ben impresso nella mente il primo pensiero che aveva avuto quando si era risvegliato in ospedale. Era arrivato a un «passo dalla morte», come lui stesso racconta ad Avvenire. Colpito dal Covid che nel novembre 2020 l’aveva portato fino alla terapia intensiva. Era presidente della Cei e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. «Quando ho riaperto gli occhi dopo alcuni giorni di perdita di coscienza, era una domenica mattina. Ho visto papa Francesco in televisione. E quasi non mi rendevo conto di che cosa mi fosse successo. Avrei saputo a distanza di poche ore che il Papa mi aveva chiamato e stava pregando per me». La polmonite bilaterale unita a una setticemia aveva spinto i medici a ipotizzare che non ce l’avrebbe fatta. Aveva 78 anni.

Oggi ne ha 82 anni. E si sente toccato in prima persona dalla malattia di papa Francesco. Anche Bassetti aveva ricevuto l’ossigeno. Anche lui aveva un’infezione generalizzata. «Credo che dal cielo qualcuno ci abbia messo una mano. E ce l’ha messa molto bene se sono uscito dall’ospedale». Quello di Santa Maria della Misericordia a Perugia. «Sono voluto rimanere fra la mia gente», aggiunge. Ora il “barometro” della sua salute è tornato a segnare bel tempo. Ma subito tiene a dire: «Mi ha salvato Dio. Mi ha salvato la preghiera di quanti l’hanno fatta arrivare al Signore per me. Mi hanno salvato i medici e gli infermieri che prima a Perugia e poi al policlinico Gemelli, dove ho trascorso la convalescenza, mi hanno assistito. Ho assaporato la bontà che Dio ha iscritto nei loro cuori. E ho sperimentato come nei reparti sovrabbondi l’amore». Per oltre un mese è rimasto in ospedale. Ecco perché il principale pensiero va al Papa ricoverato. «Tutta la Chiesa gli è accanto nell’abbraccio della preghiera, a cominciare dalla mia modesta persona che proprio nella malattia ha potuto sperimentare la preghiera di intercessione di Pietro che invoca Dio per un povero successore degli apostoli in difficoltà. I cuori della gente sono sintonizzati con il Papa. Gente delle nostre comunità, ma anche gente lontana dalla vita ecclesiale che Francesco ha saputo conquistare. La testimonianza, gli insegnamenti, le parole che ci dona anche dalla sua camera d’ospedale sono Vangelo che si fa vita».

Al Gemelli il cardinale era stato ricoverato nella stanza dei Papi, al decimo piano. «C’era suor Carla che non mi lasciava un minuto», sorride adesso. E cita ancora il presidio del capoluogo umbro per lanciare un monito. «Sono grato al mio ospedale. E, nonostante fossimo in mezzo all’emergenza coronavirus con i reparti colmi e i medici impegnati senza sosta, era in piena efficienza. Non purtroppo come adesso. Perché molti degli ospedali del Paese sono in grave difficoltà. Non si può mettere a rischio la salute tagliando o penalizzando il Sistema sanitario nazionale. Significa non garantire le cure necessarie. Ne va del bene della gente, soprattutto di quella più povera».

Eminenza, come ha vissuto la malattia?

«È un supplizio quando ti viene a mancare l’aria, quando senti che tuoi polmoni non sono più in grado di reagire. A un certo punto persino i medici pensavano che sarebbe stato impossibile superare la fase più acuta. Ne ero cosciente. Ma ringrazio il buon Dio per avermi permesso di affrontare questa straordinaria e, al tempo stesso, straziante prova».

La paura?

«Ammetto che la paura c’è stata. È un fatto creaturale. Qualunque ruolo ciascuno di noi abbia, in quel momento sei solo con te stesso, con la tua malattia, con la tua fede. Una fede che è messa alla prova. Hai come l’impressione che Dio ti stia chiedendo di sacrificare quello che di più prezioso ti ha donato, ossia la vita. Perché ciascuno di noi è fatto per la vita».

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“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, aveva detto il Signore sulla croce. Anche lei ha ripetuto questo grido?

«In un certo senso, sì. Sulla croce Cristo, in quanto Dio fatto uomo, non poteva più poggiare su alcuna consolazione umana: neppure su sua madre che aveva affidato a Giovanni. S’era spogliato di tutto, non solo delle sue vesti».

E la preghiera?

«Ho sentito la forza e l’efficacia della preghiera che è conforto. Nel frangente più complesso, quando ogni energia viene meno, puoi solo abbandonarti al Padre. Mentre ero sotto il casco dell’ossigeno e sembrava che la testa scoppiasse, la preghiera è stata un’offerta. Ripetevo: «Signore, tutto per te». Comunque, già prima di essere portato in ospedale, mentre nella mia camera nel palazzo arcivescovile ero in condizioni serie, avevo avvertito l’esigenza di scrivere una lettera alla mia Chiesa sul rapporto con l’Eucaristia. Avevo una pisside vicino alla porta e ogni giorno mi comunicavo. Mi è stato di grande aiuto riflettere sul Sacramento dell’altare, ricordare a me stesso e al popolo che quel pane consacrato abbraccia tutto l’universo e stringe a sé tutti i problemi dell’umanità».

Poi c’è stato anche per lei un “movimento” di preghiera che l’ha accompagnata nelle settimane più complesse.

«Mi ha sostenuto la preghiera non solo della mia famiglia diocesana ma di tutta la Chiesa italiana. Per anni ho continuato a sentirmi dire nelle diocesi o nelle parrocchie che visitavo: “Abbiamo pregato per lei”. È stato davvero un dono che, direi, ha unito cielo e terra. Sono certo che anche il Papa la sta avvertendo, insieme con la solidale vicinanza di tutto il mondo».

In ospedale, su un letto, lontano dalla propria gente, isolato da tutti. Che cosa si prova?

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«Quando si è prossimi a rendere conto della propria vita, vengono in mente le enormi possibilità di bene che Dio ti ha prospettato e che non hai sfruttato per i tuoi limiti o le tue omissioni. Ma c’è anche il desiderio di tornare in mezzo al popolo. Ricordo che una notte in ospedale mi sono strappato via tutto ciò che avevo sul corpo e mi sono buttato giù dal letto ripetendo: “Devo andare a dire Messa nella Basilica di Assisi…”. Mi hanno raccolto a terra le infermiere che, con i medici, chiamo ancora i “miei angeli”».

Nella società dell’efficientismo, la malattia viene nascosta. Papa Francesco ha chiesto trasparenza sul suo quadro clinico.

«La malattia ti fa comprendere che la vita è meravigliosa. E va vissuta fino all’ultimo momento che il Signore ti concede. Per questo tutti, a cominciare dalla politica, sono chiamati a non abbandonare mai chi soffre. Ed è una falsa compassione il suicidio assistito che anche in Italia si vuole legalizzare come accade in Toscana. Va sostenuta la cultura della vita, non quella della morte. È anche questa la lezione che ci viene da papa Francesco al policlinico Gemelli».

Cinque anni fa esplodeva la pandemia. Lei ha affrontato come presidente della Cei il momento più arduo anche per la Chiesa italiana con la sospensione delle Messe pubbliche.

«È chiaro che tutti erano impreparati, ma di fronte a quasi 200mila morti accertati nel nostro Paese posso affermare che, per me, certe misure dolorose erano necessarie. E i vaccini ci hanno consentito di superare la pandemia in tempi relativamente brevi».

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