Era il 1990 quando la Banca Mondiale fissò la soglia della povertà estrema a 1,90 dollari al giorno. Un numero che oggi suona come una macabra ironia mentre sorseggio il mio caffè da 3 euro in un bar del centro di Milano. Eppure, mentre noi discutiamo di inflazione e potere d’acquisto, circa 700 milioni di persone – secondo i dati della World Bank del 2023 – vivono ancora al di sotto di quella soglia, in un limbo di disperazione che noi occidentali facciamo finta di non vedere.
Il circo della politica mondiale offre uno spettacolo ancora più desolante. I leader del G20 si riuniscono in hotel a cinque stelle, spendendo in un giorno quanto basterebbe per sfamare un villaggio intero per un anno. Parlano di “soluzioni innovative” e “approcci integrati” mentre i loro maggiordomi servono champagne in flûte di cristallo. La povertà è diventata un argomento da cocktail party, dove si può fare bella figura citando qualche statistica tra un canapè al salmone e l’altro.
Non sono numeri astratti. Sono volti, storie, vite umane ridotte a statistiche che scorrono sui nostri schermi mentre scrolliamo distrattamente le notizie del giorno. Come mi disse una volta Amartya Sen, premio Nobel per l’economia: “La povertà non è solo mancanza di denaro, è non avere la possibilità di realizzare il proprio potenziale umano.” Una frase che dovrebbe farci vergognare della nostra indifferenza.
I parlamenti mondiali hanno perfezionato l’arte dell’ipocrisia. Votano mozioni “contro la povertà” mentre tagliano i fondi al welfare. Il cinismo politico ha raggiunto vette mai viste: si criminalizzano i poveri come se la miseria fosse una colpa personale, non il risultato di un sistema che genera disuguaglianze sempre più profonde. Come ha osservato amaramente Thomas Piketty nel suo ultimo saggio: “La politica moderna ha trasformato la povertà da emergenza sociale a fastidioso inconveniente estetico.”
La pandemia ha solo peggiorato un quadro già drammatico. Secondo l’economista Branko Milanović, “Il COVID-19 ha causato il primo aumento della povertà globale in una generazione.” I progressi di trent’anni sono stati cancellati in pochi mesi, mentre i politici si affannavano a salvare le banche prima dei cittadini.
La geografia della miseria è cambiata. L’Africa subsahariana resta l’epicentro con oltre il 40% della popolazione in povertà estrema, ma nuove sacche di indigenza si sono create anche nelle periferie delle megalopoli asiatiche e latinoamericane. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times, “La povertà urbana del XXI secolo è più insidiosa di quella rurale del secolo scorso. Si consuma nel paradosso di vedere la ricchezza a portata di mano, ma irraggiungibile.”
Le élite politiche hanno elevato il disprezzo per i poveri a forma d’arte. Li chiamano “parassiti sociali”, “fannulloni”, “approfittatori del welfare”. Come se vivere con due dollari al giorno fosse una scelta di vita alternativa. Il sociologo Zygmunt Bauman lo aveva previsto: “La povertà nell’era moderna non è solo privazione materiale, è stigma sociale, è colpa morale costruita ad arte dai potenti.”
I dati dell’UNICEF sono impietosi: 356 milioni di bambini vivono in condizioni di povertà estrema. Significa che uno su sei non ha accesso a nutrizione adeguata, istruzione, cure mediche di base. Il professor Jeffrey Sachs della Columbia University lo definisce “un fallimento morale della nostra generazione.” E ha ragione.
Ma ciò che più mi inquieta è l’assuefazione. Ci siamo abituati alle immagini di bambini denutriti, alle baraccopoli, ai barconi di disperati. Le guardiamo con la stessa indifferenza con cui osserviamo le previsioni del tempo. I politici hanno imparato che ignorare i poveri non costa voti: sono invisibili anche nelle urne.
I programmi di aiuto internazionale sembrano più esercizi di pubbliche relazioni che reali tentativi di cambiamento. La FAO stima che servirebbe meno dell’1% del PIL mondiale per eliminare la fame nel mondo. Eppure nel 2023 abbiamo speso 2.240 miliardi di dollari in armamenti. Una cifra che fa impallidire i 161 miliardi destinati agli aiuti allo sviluppo.
L’economista Esther Duflo sostiene che “la povertà non è un destino, ma il risultato di scelte politiche.” Scelte che facciamo ogni giorno, con i nostri consumi, con i nostri voti, con la nostra indifferenza. Come quando ignoriamo che dietro il prezzo stracciato di una t-shirt si nasconde lo sfruttamento di un bambino in Bangladesh.
La verità è che la povertà globale ci fa comodo. Alimenta un sistema economico basato su manodopera a basso costo e materie prime sottocosto. Come ha scritto William Easterly nel suo ultimo saggio: “Il mondo ricco ha bisogno del mondo povero più di quanto voglia ammettere.”
Concludo con le parole di Papa Francesco, che nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri ha detto: “La povertà non è una maledizione, è una condizione creata dall’egoismo umano.” Un egoismo che ha trovato nella politica moderna il suo più fedele alleato.
E mentre termino questo articolo, altri 15.000 bambini sono morti di fame nel mondo. Ma domani i nostri politici parleranno d’altro, si preoccuperanno d’altro. Perché il disprezzo per i poveri è diventato l’unica politica veramente bipartisan.
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