Il contributo analizza la sentenza n. 4427 del 20 febbraio 2025 della Corte di Cassazione, volta a fare chiarezza sull’applicazione dell’esenzione da ritenuta su finanziamenti in merito agli interessi outbound percepiti indirettamente da un fondo di investimento estero in qualità di beneficiario effettivo.
Con la sentenza n. 4427 del 20 febbraio 2025 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema del “beneficiario effettivo” nel contesto dei flussi reddituali cross-border, ma questa volta in relazione all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973[1] che, come noto, prevede l’esenzione da ritenuta sugli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati, inter alia, da investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, soggetti a forme di vigilanza nei Paesi nei quali sono istituiti.
I fatti di causa originano dall’impugnazione del silenzio-rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria all’istanza di rimborso presentata da una società italiana in relazione alle ritenute applicate e versate (nella misura ridotta prevista dall’art. 11 della Convenzione tra Italia e Lussemburgo) sugli interessi corrisposti al proprio socio unico, una società di diritto lussemburghese, e da questa retrocessi al proprio socio, un fondo comune di investimento lussemburghese, in base alla (sopravvenuta) applicabilità dell’esenzione della ritenuta su finanziamenti di cui al citato art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973.
Nei vari gradi di giudizio, sulla scorta dei propri precedenti (cfr. Risoluzione n. 76/E del 2019[2] e Risposta n. 125/E del 2021[3]), l’Amministrazione finanziaria ha infatti sostenuto che la società lussemburghese, primo percettore degli interessi, non integrava i requisiti soggettivi richiesti al soggetto finanziatore per poter beneficiare della suddetta esenzione, non qualificandosi essa (bensì il socio) quale investitore istituzionale eligible. Secondo la tesi dell’Amministrazione finanziaria, disattesa già dai giudici di secondo grado, l’esenzione della ritenuta su finanziamenti di cui all’art. 26, comma 5-bis, non sarebbe infatti applicabile ai finanziamenti effettuati da entità soggettivamente “qualificate” in via “indiretta”, ossia attraverso entità interposte, mancando in tale norma un richiamo letterale alla nozione di “beneficiario effettivo”, presente invece nell’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973 (che ha implementato in Italia la Direttiva Interessi e Royalty).
Con una posizione innovativa in relazione alla specifica norma esaminata, ma coerente con altri precedenti concernenti l’applicazione delle ritenute convenzionali e/o delle Direttive UE (Cass. n. 26923/2024; Cass. n. 16173/2023; Cass. n. 11191/2023; Cass. n. 6005/2023), la Cassazione rigetta la posizione dell’Agenzia delle Entrate, affermando che i requisiti soggettivi del finanziatore richiesti dalla norma di esenzione domestica debbano essere rivestiti dal beneficiario effettivo degli stessi, individuabile attraverso il cd. approccio look-through, che si rivela necessario specialmente nelle ipotesi di finanziamenti infragruppo (ove è consueto, se non fisiologico, il ritrasferimento dei flussi).
La Corte ritiene infatti irrilevante la mancanza di un riferimento letterale al “beneficiario effettivo” nella norma, valorizzando piuttosto l’identità di ratio tra l’art. 26, comma 5-bis, ed altre disposizioni ove detto riferimento è esplicitato, cioè a dire l’eliminazione delle doppie imposizioni sui flussi di interessi cross-border.
Ciò anzitutto si verifica in relazione all’art. 11 delle Convenzioni contro le doppie imposizioni conformi al modello OCSE[4] nelle quali la nozione di soggetto cui vengono “pagati” gli interessi è connessa e interpretata alla luce di quella di “beneficiario effettivo”. Anche la CGUE, nelle note “sentenze danesi”[5], ha espresso il principio secondo cui il termine “beneficiario effettivo”, inteso alla luce dell’oggetto e dell’obiettivo delle convezioni contro le doppie imposizioni, coincide con il soggetto “al quale il reddito sia fiscalmente imputabile in forza della sua disponibilità” e designa perciò l’entità che realmente beneficia degli interessi ricevuti, se del caso da individuare mediante il ricorso all’approccio look-through.
In un’ottica “domestica”, il riferimento al beneficiario effettivo, piuttosto che al materiale percettore del reddito, costituisce una corretta applicazione dei principi di capacità contributiva e di possesso del reddito inteso come materiale disponibilità dello stesso, i quali rappresentano presupposti fondamentali dell’imposizione diretta.
La Corte ritiene tali concetti immanenti tanto all’applicazione dell’art. 26-quater quanto dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. 600/1973, nei quali si individua la medesima ratio di voler eliminare il rischio di doppia imposizione, oltre che di facilitare l’accesso al credito intra-UE.
Ebbene, nei casi in cui il rapporto di finanziamento è caratterizzato da un’interposizione, per effetto della quale il diretto percettore degli interessi è tenuto a retrocedere il flusso incassato a favore di un terzo, la doppia imposizione che si intende prevenire potrebbe verificarsi proprio in capo al beneficiario effettivo del reddito che subirebbe l’imposizione sugli interessi ricevuti. In tal senso, dunque, il riconoscimento dell’esenzione dellea ritenuta su finanziamenti ex art. 26, comma 5-bis, a favore del beneficiario effettivo degli interessi (contrariamente a quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria) realizza le finalità perseguite dal legislatore.
La portata innovativa della sentenza in commento consiste dunque nell’estendere l’applicazione del concetto di beneficiario effettivo del reddito, in un’ottica fortemente sostanzialistica, anche al regime di esenzione ex art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, da cui era stato (in modo poco ragionevole) escluso dall’Amministrazione finanziaria.
Del resto, tale concetto (presente, come detto, nella Direttiva Interessi e Royalties e nelle Convenzioni conformi al Modello OCSE ai fini della tassazione di dividendi, interessi e royalties) è stato utilizzato in chiave anti-abuso anche nell’applicazione della Direttiva Madre-Figlia, nella quale non è invece espressamente previsto. Infatti, gli indici rivelatori dell’assenza della qualifica di beneficiario effettivo in capo al percettore del reddito sono stati valorizzati, dalla prassi accertativa nonché dalla giurisprudenza unionale e domestica, quali segnali della presenza di costruzioni artificiose o puramente formali, in concomitanza con altri elementi indicatori concordanti, quale punto di partenza dell’accertamento di un abuso in presenza del quale è disconosciuta l’applicazione della Direttiva.
Ebbene, dalla sentenza in commento, in linea con la giurisprudenza della CGUE, si ricava come l’esclusione della qualifica di beneficiario effettivo in capo al soggetto interposto/primo percettore (può essere indizio di, ma) non è necessariamente ascrivibile ad uno schema abusivo. Infatti, la presenza di una conduit company nella struttura d’investimento non comporta sic et simpliciter l’individuazione della natura abusiva della stessa e, perciò, un definitivo ostacolo all’applicazione di regimi di esenzione domestica/unionale o dei benefici convenzionali, laddove sia possibile verificare (tramite un approccio look-through) che il soggetto per conto del quale detta entità interposta agisce integri in proprio i requisiti necessari. In altri termini, la “interposizione” di un soggetto nel flusso reddituale cross-border (di interessi, dividendi, capital gain) non può dare luogo ad alcun fenomeno elusivo o di abuso se il beneficiario effettivo estero sia un soggetto eligible per l’esenzione della ritenuta su finanziamenti (ovvero per l’applicazione del regime convenzionale), ossia in assenza di un vantaggio fiscale “indebito”.
L’interpretazione “sostanzialista” del concetto di beneficiario effettivo fornita dalla Corte nella sentenza in commento, ancorata ai principi di capacità contributiva e di effettivo possesso del reddito, dovrebbe aiutare a sgombrare il campo da interpretazioni formalistiche, che negano i benefici convenzionali o delle Direttive in base alle caratteristiche del percettore diretto, senza indagare l’esistenza di un vantaggio fiscale indebito nella catena partecipativa soprastante.
È il caso ad esempio dei flussi reddituali percepiti dalle holding UE tramite le quali fondi UE e SEE vigilati effettuano e detengono gli investimenti in Italia. Poiché dette entità, nel caso di investimento diretto, percepirebbero dividendi e plusvalenze di fonte italiana senza alcuna tassazione in uscita[6], l’utilizzo di una holding intermedia al fine di detenere (e segregare) l’investimento non può evidentemente dare luogo ad alcun indebito risparmio d’imposta (e dunque ad una fattispecie di abuso), a prescindere da qualsivoglia valutazione in ordine alla sostanza economica e alle funzioni svolte dalla holding ovvero alla sua natura conduit. In assenza di un’ipotesi di abuso, non sarebbe possibile negare alla holding l’applicazione della Direttiva Madre-Figlia ovvero la tassazione della plusvalenza nello Stato di residenza del percettore in base alla Convenzione applicabile.
I medesimi principi dovrebbero inoltre essere validi anche con riguardo alle strutture d’investimento UE dei fondi istituiti in Paesi extra-UE per effetto del principio di libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63 del TFUE, il quale è applicabile non solo agli Stati dell’Unione ma anche a Paesi terzi, come sembra aver ormai riconosciuto la giurisprudenza (di fatto anticipando il legislatore italiano). Da un lato, infatti, è ormai consolidato l’orientamento della CGUE che ritiene dovuto il rimborso ai fondi UE delle ritenute subite sui dividendi in altro Stato Membro sulla base del citato art. 63[7]; dall’altro, la stessa Corte di Cassazione[8] ha ripetutamente avuto modo di evidenziare che, in forza del citato art. 63, è illegittima qualsiasi discriminazione nei confronti dei fondi di investimento residenti in Paesi non UE. In quest’ottica, dunque, anche l’utilizzo di holding europee da parte dei fondi residenti (e vigilati) al di fuori dell’Unione non potrebbe legittimare contestazioni di abuso giacché l’interposizione non sarebbe foriera di alcun (indebito) vantaggio, essendo l’esenzione della ritenuta su finanziamenti il regime naturale dei redditi dei fondi vigilati anche extra-UE[9].
Sotto altro profilo, il riferimento della Corte di Cassazione all’effettivo possesso del reddito inteso quale materiale disponibilità dello stesso, induce a indagarne le diverse possibili declinazioni a seconda della natura del soggetto percettore. Al riguardo vale menzionare i tre test che la giurisprudenza (da ultimo, Cass. n. 26923/2024) ha elaborato al fine di individuare gli “indici segnaletici” della genuinità di una società che percepisce flussi finanziari transfrontalieri, vale a dire:
- il “substantive business activity test”, che verifica se la società percipiente svolge un’attività economica effettiva;
- il “dominion test”, che verifica se la società percipiente può disporre liberamente dei flussi finanziari ricevuti ovvero se sia, per obbligo di legge o contrattuale, tenuta a rimetterli a un terzo;
- il “business purpose test”, che verifica le ragioni alla base dell’interposizione della società nel flusso reddituale transfrontaliero e cioè se essa assolve a una funzione specifica ovvero se rappresenta una mera conduit company.
Al riguardo è nota la giurisprudenza della Cassazione[10] che ha avuto il pregio di sottolineare l’irragionevolezza della comparazione, in termini di “sostanza economica” e di “dominio sul reddito”, tra le società operative e le holding, considerate le diverse funzioni e attività che le stesse svolgono: ciò che rileva per le holding (statiche) è lo svolgimento effettivo dell’attività tipica che si riscontra in questa tipologia di soggetti e normalmente riconducibile ai “compiti istituzionali di mero indirizzo e direzione unitaria, partecipazione alle assemblee delle controllate e riscossione dei dividendi”. Peraltro, secondo la Corte di Cassazione, non potrebbe negarsi alla holding la qualità di beneficiario effettivo dei dividendi per la sola circostanza che la ricchezza rinveniente dalle società operative fluisca alla capogruppo. È necessario, infatti, che l’indagine sia condotta sul trattenimento ed autonomo impiego dei dividendi ovvero sulla loro traslazione alla capogruppo residente nello Stato non contraente, fermo restando che la fisiologica distribuzione di dividendi alla capogruppo nell’ambito del rapporto associativo non vale a disconoscere la qualifica di beneficiario effettivo.
Da ultimo si fa notare come nella sentenza in commento, capovolgendo la prospettiva dell’Amministrazione finanziaria, la Corte afferma che la circostanza di ignorare l’esistenza e la natura del beneficiario effettivo interponente (per via, per l’appunto, dell’esistenza del soggetto interposto) rischierebbe di favorire il ricorso a schemi artificiosi da parte dei contribuenti. L’attribuzione di una esclusiva rilevanza alla natura e qualifica del “percettore immediato” del flusso reddituale potrebbe condurre a riconoscere allo stesso l’esenzione anche ove esso retroceda gli interessi incassati a favore di un soggetto terzo che, se ne fosse stato il diretto percipiente, non avrebbe potuto usufruire dell’esenzione per mancanza dei requisiti soggettivi.
Al riguardo tuttavia si osserva che difficilmente potrebbe configurarsi l’interposizione di soggetti istituzionali finanziatori che rivestono formalmente la qualifica soggettiva di cui all’art. 26, comma 5-bis. Nel caso specifico degli OICR UE/SEE vigilati, la relativa esenzione della ritenuta su finanziamenti dovrebbe prescindere dal fatto che i fondi siano fisiologicamente tenuti a redistribuire i proventi percepiti agli investitori, sicché essi devono senz’altro porsi al di fuori di un sindacato di abuso (alla stregua di entità a loro volta conduit) e qualificarsi per definizione come soggetti “genuini” (al pari di un fondo italiano).
In conclusione, si auspica che la sentenza contribuisca a segnare il superamento definitivo – almeno per le strutture d’investimento dei fondi UE/SEE vigilati (fino all’estensione “formale” anche ai fondi extra-UE) – della prassi accertativa che, considerando le holding intermedie come entità interposte o artificiose e senza riconoscere la presenza di un fondo esente interponente (e quindi l’assenza di abuso), contesta la mancata tassazione alla fonte dei flussi reddituali.
[1] Nella specie il comma 5-bis dell’art. 26 del D.P.R. n. 600/1973 stabilisce che “Ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, la ritenuta su finanziamenti di cui al comma 5 non si applica agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea, enti individuati all’articolo 2, paragrafo 5, numeri da 4) a 23), della direttiva 2013/36/UE, imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea o investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”.
[2] Nella citata Risoluzione l’Amministrazione aveva affermato che “In merito all’ambito soggettivo si ritiene opportuno chiarire che la disposizione in esame non consente di procedere secondo il principio del beneficiario effettivo, così da ricondurre il flusso degli interessi esclusivamente al soggetto estero percettore finale del reddito ma si rivolge esclusivamente alla platea di soggetti indicati dalla stessa norma”, aggiungendo in tal senso che “né la formulazione letterale, né la ratio della norma in esame si prestano a una lettura di tipo look through del relativo disposto”.
[3] Nella citata Risposta, richiamando quanto affermato nella Risoluzione n. 76/E/2019, si ribadisce che “Stante l’esplicito riferimento dell’articolo 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600 del 1973 ai “percettori” di reddito, non appare coerente, in linea di principio, applicare il regime di esenzione in esso previsto a beneficiari dei redditi (interessi) che non siano anche i diretti percettori degli stessi”.
[4] Cfr. art. 11 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Lussemburgo (firmata a Lussemburgo il 3.06.1981, ratificata con L. 14.08.1982, n. 747, con Protocollo aggiuntivo firmato a Lussemburgo il 21.06.2012 e ratificato con L. 03.10.2014, n. 150), secondo cui: “Gli interessi provenienti da uno Stato contraente e pagati ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato. Tuttavia, tali interessi sono imponibili anche nello Stato contraente dal quale essi provengono ed in conformità alla legislazione di detto Stato, ma, se la persona che percepisce gli interessi ne è il beneficiario effettivo, l’imposta così applicata non può eccedere il 10 per cento dell’ammontare lordo degli interessi”.
[5] Cfr. CGUE sent. 26 febbraio 2019, C-115/16, C-118/16, C119/16 e C-299/16.
[6] Cfr. art. 1, commi 631-633, della Legge n. 178/2020 (“Legge di Bilancio 2021”) il quale ha stabilito che sono esenti da imposizione in Italia i dividendi e le plusvalenze percepiti dagli OICR di diritto estero conformi alla Direttiva 2009/65/CE (c.d. Direttiva “UCITIS IV”) e dagli OICR che, sebbene non conformi a tale Direttiva, abbiano un gestore soggetto a forme di vigilanza nel Paese estero di appartenenza ai sensi della Direttiva 2011/61/UE (c.d. Direttiva “AIFM”) e siano istituiti in Stati membri UE o SEE che consentono un adeguato scambio di informazioni. Come noto, la norma della Legge di Bilancio 2021 è stata introdotta per estendere anche agli OICR di diritto estero l’esenzione fiscale prevista per gli utili di partecipazione percepiti da fondi residenti in Italia (cfr. in tal senso la Relazione illustrativa alla Legge di Bilancio 2021 e la Risposta dell’Agenzia delle Entrate n. 327/E/2021) al fine di rispondere alle istanze della Commissione Europea che aveva inviato un’indagine investigativa (EU Pilot 8105/15/TAXU) con l’obiettivo di verificare la disponibilità dello Stato italiano a procedere spontaneamente ad adeguare la normativa interna prima di dare inizio ad una procedura di infrazione tesa a rimuovere la disparità di trattamento dei fondi esteri rispetto a quelli italiani.
[7] Come noto, la libera circolazione dei capitali è l’unica libertà fondamentale dell’Unione ad essere (unilateralmente) riconosciuta anche a favore dei Paesi terzi. Il primo paragrafo dell’art. 63 del TFUE, infatti, stabilisce che “nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”. Con riguardo all’applicazione del principio di libera circolazione dei capitali ai fondi si veda, da ultimo, la sentenza CGUE del 17.3.2022 sulla Causa C-545/19.
[8] Cass. nn. 21454, 21475, 21479, 21480, 21481, 21598 del 2022 e n. 20787 del 2023.
[9] Quanto detto assume particolare rilievo alla luce della circostanza che parte della giurisprudenza di merito mostra di non aderire all’orientamento interpretativo sopra delineato. Emblematico è il caso di una recente sentenza della Corte di Giustizia di II grado del Lazio (n. 4124/2/2024) che si è espressa in tema di dividendi distribuiti da una società italiana alla holding lussemburghese di un fondo di investimento britannico nell’anno 2015. La vicenda scaturiva dalla contestazione dell’abusività ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 212/2000 dell’interposizione della holding, giacché secondo l’Agenzia delle Entrate l’inserimento della società – asseritamente priva di sostanza economica – nella struttura di investimento del fondo non avrebbe avuto altro scopo che consentire l’accesso al regime di esenzione dei dividendi previsto dalla Direttiva Madre-Figlia (come recepita nell’ordinamento domestico dall’art. 27-bis del D.P.R. n. 600/1973). Per l’effetto, l’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto il beneficio dell’esenzione e recuperato a tassazione la ritenuta del 26% sui dividendi in uscita ex art. 27 del D.P.R. n. 600/1973. Contrariamente a quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria, il giudice di primo grado (CGT I grado di Roma n. 11354/35/2022) aveva escluso la configurabilità di un abuso osservando che, indipendentemente dalla valutazione della sostanza e funzione della holding, la Legge di Bilancio 2021 ha ormai chiarito che, in conformità con l’art. 63 del TFUE, il regime di esenzione dei dividendi e delle plusvalenze si applica anche a favore dei fondi esteri, con l’effetto che l’articolazione della struttura di investimento del fondo non può in principio dare luogo ad alcun vantaggio indebito; peraltro, questo principio veniva riconosciuto anche per dividendi distribuiti nel 2015, e perciò prima dell’entrata in vigore della norma della Legge di Bilancio 2021 (con la massima estensione del principio della libera circolazione dei capitali). Al contrario, la decisione del giudice di secondo grado, con un passo indietro rispetto alla condivisibile sentenza di prime cure, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, concentrando l’attenzione solo sulla mancanza di sostanza della holding e liquidando “frettolosamente” il tema dell’esenzione dei fondi esteri (limitandosi a osservare che la norma della Legge di Bilancio 2021 non era ancora entrata in vigore alla data della distribuzione, senza nemmeno menzionare l’art. 63 del TFUE).
[10] Cfr. Cass. nn. 27112, 27113, 27115 e 27116 del 2016 in relazione ai dividendi e Cass. n. 14756/2020 e n. 3380/2022 in relazione agli interessi.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link