Anche Bitcoin va messo in cassaforte. L’intervista alla startup svizzera che sviluppa hardware wallet

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C’è chi investe in criptovalute e le conserva online, nei software wallet. Gli esperti però suggeriscono prudenza per proteggere le proprie chiavi private. Ci siamo fatti spiegare la tecnologia alla base di questi strumenti da Luca Giuliani, sviluppatore di BitBox

«Il software wallet è come un portafoglio, l’hardware wallet come una cassaforte. Chi sarebbe a proprio agio a girare con migliaia di euro in tasca? Il tema della self custody è fondamentale». Fin da quando ha fatto la sua comparsa – era il 31 ottobre 2008, il giorno in cui è stato pubblicato il white paper – Bitcoin ha suscitato ogni tipo di commento. Dai più entusiasti ai più critici, in particolare nelle ultime ore vista l’importante correzione. Non ci occuperemo però di questo con Luca Giuliani, developer di BitBox, perché il focus è sugli strumenti che mano a mano si stanno diffondendo tra chi investe (e risparmia) in criptovalute per tenere il più possibile al sicuro i propri asset.

Negli ultimi anni moltissimi investitori hanno perso tutto (si veda il caso FTX) perché li avevano tenuti nelle borse online, i cosiddetti software wallet. Vediamo dunque di capire come funzionano gli hardware wallet, cosa offrono e perché andrebbero considerati in un’ottica di maggior sicurezza.

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Luca Giuliani, developer di BitBox

Che cos’è un hardware wallet?

Partiamo dalle domande più ovvie: che cos’è un hardware wallet e perché è importante quando si parla di Bitcoin e criptovalute? «La differenza principale con il software wallet è il paradigma di sicurezza alla base», ci ha spiegato lo sviluppatore. C’è un esempio che rende l’idea. «Se ho un segreto custodito in un palloncino, più quest’ultimo è grande e maggiore è la sicurezza che devo garantire».

Il segreto, in questa situazione, sono le chiavi private per accedere ai propri Bitcoin. «Nel caso di un software wallet queste chiavi sono connesse a internet. Se invece creo un dispositivo non connesso alla rete, con le minime funzionalità per proteggere il segreto, allora aumento la sicurezza». Per un hardware wallet serve un portatile, un dispositivo «che comunica in maniera controllata con l’host device e conserva il tuo segreto». Giuliani l’ha riassunta così: «Tutto quello che sta all’estero dell’hardware wallet è potenzialmente malevolo. Ecco perché deve avere uno schermo. Non ci si può fidare altrimenti. Se devo firmare una transazione devo leggere i dettagli sullo schermo».

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Una startup per custodire le cripto

BitBox è una società svizzera con sede a Zurigo fondata da Douglas Bakkum e Jonas Schnelli. Il suo primo hardware wallet è stato lanciato nel 2015. Ma qual è la tecnologia alla base di dispositivi non dissimili per estetica da una chiavetta USB? «La tecnologia di un hardware wallet è semplice e minimal – ha proseguito Giuliani -. Un hardware wallet che si rispetti ha un elemento che non trovi in un cellulare che è il chip aggiuntivo, progettato per essere resistente ad attacchi fisici».

Questo perché se si creasse un hardware wallet con un semplice microprocessore, «un ladro potrebbe recuperare le chiavi private. Ci sono pure video tutorial su YouTube». Questo non è possibile con un portafoglio fisico. «È realizzato per esser protetto da attacchi fisici». Se in Italia il fenomeno Bitcoin e cripto si è espanso – pur rimanendo ancora di nicchia – in Europa il processo è più avanzato. Quali sono i Paesi più maturi da questo punto di vista? «I poli più importanti a livello europeo sono Repubblica Ceca, Germania, Svizzera e Austria. Ci stiamo concentrando anche su Spagna e Italia».

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Che cosa significa la self custody per Bitcoin?

Uno degli aspetti più importanti di Bitcoin riguarda la self custody, che in parole povere significa la piena ed esclusiva responsabilità della persona rispetto alla sicurezza dei propri asset. Non ci sono banche, non ci sono numeri d’emergenza o appigli: chi non mette al sicuro le chiavi private rischia di perderle in maniera definitiva. E con esse i soldi, per intenderci.

«Lo ripetiamo sempre: Bitcoin non ha un ufficio marketing e non è una azienda. Il software wallet è il primo step di chi è curioso e chi vuole possedere criptovalute». Maturando interesse e consapevolezza il passaggio successivo punta agli hardware wallet. «Tutti i prodotti legati alla self custody hanno ancora un importante margine di miglioramento. C’è un discorso di responsabilità, ma chiunque deve essere educato per capire come custodire le chiavi private. Rimane un cambio di paradigma molto importante».

Nelle ultime settimane non sono mancate le notizie di truffe e operazioni altamente speculative. Dalla cripto del presidente Trump (e della first lady Melania) all’inciampo del presidente argentino Javier Milei su $Libra, il dibattito è spesso attorno ai rischi del settore. Ma concentriamoci su Bitcoin.

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Fare chiarezza su Bitcoin

«Il mondo cripto si porta dietro una dimensione molto importante di speculazione che può scadere negli scam più beceri. In particolare i meme coin, i token – ha detto lo sviluppatore -. C’è una differenza fondamentale a livello strutturale tra Bitcoin e il resto. Bitcoin vuole risolvere un problema che non affligge i trader. Ha una missione sociale nell’aiutare le persone a mantenere il proprio poter d’acquisto, a fare transazioni senza dover chiedere il permesso ed è legato a libertà personale e privacy».

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Gli esperti e sostenitori di Bitcoin concordano nel fatto che in Italia manca ancora una cultura di base sul fenomeno, libera da pregiudizi e fake news. BitBox, ad esempio, oltre a vendere prodotti fa recapitare a casa anche una copia del white paper che ha battezzato il fenomeno Bitcoin, firmato da Satoshi Nakamoto. «È un manifesto. In quelle pagine vengono esplicitati i motivi per cui è stato creato Bitcoin. Si parla di un problema e di una possibile soluzine. La lettura è di tipo tecnico e l’innovatività è stata quella di riuscire a mettere insieme tecnologie mai mixate prima che hanno permesso una tecnologia realmente decentralizzata. Che finora continua a sopravvivere».





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