In primavera è attesa la pubblicazione di un volume che racconta l’interesse dello scrittore per la spiritualità e il mondo delle filosofie orientali. Contiene foto di pagine riemerse da taccuini e scritti inediti scovati tra archivi e biblioteche. Jack Kerouac arrivò al buddhismo negli anni Cinquanta, attraverso una serie di letture e incontri, soprattutto dopo aver conosciuto il poeta Gary Snyder, la cui figura è immortalata nei Vagabondi del Dharma
Nel 1956 Jack Kerouac trascorre l’estate come guardiano antincendio a Desolation Peak, nella foresta dello stato di Washington al confine col Canada. Il racconto di quell’esperienza si distende libero nella prima parte di Angeli della desolazione, romanzo che verrà pubblicato solamente nel 1965.
Nel libro Jack Duluoz, alter ego di Kerouac, è preda della desolazione della solitudine, si annoia, medita di buttarsi di sotto, fissa il monte Hozomeen come un’allucinazione, insegue il Buddha e l’eternità dorata e l’annullamento dell’io; la scrittura è vorace prosa bop, svincolata, i vecchi quaderni si mescolano ai ricordi e le frasi ai segni di interpunzione – «Addio, Desolazione, mi hai tenuto compagnia» — scrive Duluoz poco prima di commiatarsi dalla foresta e tornare tra la gente.
Nei Vagabondi del Dharma avevamo lasciato il protagonista Ray Smith mentre si condanna al picco della desolazione alla ricerca di un’esperienza spirituale o una rilevazione. Angeli della desolazione è il racconto di uno schianto: al termine dei sessantatré giorni passati a combattere da soli sul picco, «l’unica cosa che voglio è un cono gelato», annota Jack Kerouac. Non appena si scende da Desolation Peak, ritrovato il mondo, l’esperienza mistica svanisce, il vuoto della mente termina: in Angeli della desolazione Kerouac descrive anche un fallimento, la perduta eternità dorata, la caduta degli dèi e delle illusioni, poiché nel mondo si torna a essere arrabbiati, parziali, critici, confusi, impauriti, sciocchi. Nessun incendio è stato avvistato al Desolation Peak, ma tanti fuochi si sono alzati dai quaderni sotto forma di appunti, versi, prose.
Il 1956 è anche l’anno in cui Kerouac scrive i sessantasei componimenti di The Scripture of the Golden Eternity. Si tratta di poemetti in prosa sciolta ispirati alla ricerca dell’eternità dorata, appunti sull’esperienza dello scrittore come risvegliato: il cattolico Kerouac da Lowell, Massachusetts, si apre al vasto mondo delle filosofie orientali, e ridefinisce sé stesso, oltre i propri limiti e i limiti della parola.
«Il mondo è scaturito da un filo d’erba: il mondo è scaturito da una mente», annota con parole semplici osservando filamenti e foglie d’erba cantati dai poeti americani nell’eterna celebrazione della propria moltitudine interiore. Kerouac attraversa il paesaggio d’Oriente e la sua promessa come un vagabondo in cerca di esperienze dello spirito, forse consapevole del detto di Rilke – che i versi non sono sentimenti ma esperienze.
I suoi diari
Se nell’immaginario contemporaneo la figura di Jack Kerouac è quella del viaggiatore beat idealizzato che attraversa gli Stati Uniti con forza vitalista, ispirato dai fumi dell’alcol, dal suono jazz, dalle strade sterminate, in realtà Kerouac è sempre stato preoccupato dall’esperienza umana e spirituale dell’essere scrittore, ha vissuto la scrittura come una ricerca solitaria di parole, di lingua, di forme nuove. I suoi diari sono una testimonianza di questo percorso di abnegazione e sbando. Il suo interesse per l’Oriente nasce dalla curiosità e la volontà di superare l’apparenza materiale e la delusione del mondo.
Se il viaggio è esperienza e fuga, anche lo spirito e la scrittura sono in movimento. È così che Kerouac tenta di superare le colonne d’Ercole e il disincanto: stando in movimento, scavalcando cancelli, scrivendo haiku dalla forma nuova, mettendo da parte i sonetti e le rime, seguendo il ritmo di un trombettista jazz e osando la prosodia beat. La scrittura è una battaglia fisica e spirituale insieme.
Jack Kerouac arriva al buddhismo negli anni Cinquanta, attraverso una serie di letture e incontri, soprattutto dopo aver conosciuto il poeta Gary Snyder, la cui figura è immortalata nei Vagabondi del Dharma. È Snyder a introdurre Kerouac alla purezza della pratica buddhista e a consigliargli l’esperienza di guardiano di incendi sul picco della desolazione. Sono gli anni in cui lo scrittore americano è rotto dentro, sfiduciato dall’editoria dove non trova un posto per il suo On The Road: Jack Kerouac sta cercando una panacea a certi turbamenti, sta cercando di imparare a diventare un essere umano e uno scrittore. E come dal caos nascono stelle, da quel periodo sono venuti fuori scritti – e stralci e inediti che sono ancora da leggere.
In uscita
La prossima primavera, per esempio, è prevista la pubblicazione di Jack Kerouac: The Buddhist Years, un volume che riflette l’interesse per il buddhismo dello scrittore nel corso di quegli anni. Il libro – che contiene foto di pagine riemerse da taccuini – sarà pubblicato dalla Rare Bird Books di Los Angeles, e curato da Charles Shuttleworth, che si è interessato a fondo al rapporto di Kerouac con il buddhismo e ha scavato alla ricerca di scritti inediti finché non ne ha scovati di interessanti tra archivi e biblioteche.
Il libro arriva nell’anno del sessantesimo anniversario di pubblicazione di Angeli della desolazione, e in un certo senso si aggiunge al materiale che già abbiamo a disposizione per leggere di quel rapporto spirituale che Kerouac ha avuto con il mondo e la scrittura. Nella sua vita Kerouac non ha mai raggiunto l’illuminazione o la rivelazione. Ha cercato, ha provato, ha fallito. Certi suoi scritti restano come un tentativo di avvicinare una parte d’Oriente, di abbattere frontiere, di guardare al di là dei propri occhi. «Ah, se ci fosse un’altra vista oltre a quella degli occhi quali altri livelli atomici raggiungeremmo mai?» — si domanda Jack Duluoz sul finire dei suoi giorni al picco della desolazione.
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