“Vi spieghiamo perché siamo contro la separazione delle carriere”

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A pochi giorni dall’imminente sciopero indetto da ANM per il 27 febbraio, abbiamo chiesto a Cesare Parodi e Rocco Maruotti, appena nominati Presidente e Segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati, di esprimere le loro posizioni sui principali temi politici sul tappeto.

La strenua opposizione della ANM alla prospettata scelta della separazione delle carriere riecheggia l’opposizione dei tanti magistrati, in particolare dell’Uffi cio del P.M., al codice processuale del 1988, all’indomani della sua entrata in vigore. Anche allora si denunciava l’asserita distanza del nuovo sistema processuale dalla previsione costituzionale. Vi furono addirittura proclami di Uffi ci Giudiziari nei quali si decretava l’impossibilità di “punire il crimine”. Furono tantissime le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel tentativo, ah inoi in gran parte riuscito, di superare gli sbarramenti tra indagini e dibattimento. Ci risiamo con l’inquisitorio?

Cesare Parodi: Ricordiamo perfettamente quell’epoca lontana ma non troppo: si trattava di una situazione completamente differente. All’epoca si trattava di sistemi processuali, di una scelta fra due sistemi profondamente diversi. C’erano state sicuramente delle forme di resistenza, non dettate dal pregiudizio ma dalla semplice difficoltà, per alcuni, di mutare i propri schemi mentali. Oggi siamo davanti a una situazione totalmente diversa: si discute del ruolo del pubblico ministero nel sistema e – indirettamente – di quello del giudice penale. Non si parla in alcun modo del sistema inquisitorio. Nessuno ne ha parlato e quindi credo che questo tipo di argomentazione per contrastare la nostra prospettazione non sia metodologicamente condivisibile.

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Sembra che chi invochi la Costituzione in contrapposizione con la riforma della separazione delle carriere, al netto di ogni considerazione sulla lettura parziale degli artt. 102,107, 108 e 112 della Carta, non tenga conto dell’art. 111 Cost. che non è un figlio minore del processo deliberativo costituente, ma che invece raccoglie princìpi definitori del sistema accusatorio, tra questi, indipendenza e terzietà del Giudice, ben consolidati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e nelle altre Convenzioni internazionali.

Cesare Parodi: Anche su questo punto c’è un errore di prospettiva. Mai nessuno, per quanto mi risulta, di coloro che si oppongono alla riforma ha messo in discussione il principio dell’articolo 111, che ormai ha permeato a fondo e in maniera corretta e condivisibile il sistema penale italiano. Non si tratta di un passo indietro rispetto al 111 e non si tratta di una messa in discussione della terzietà del giudice. Il problema è casomai solo di come può essere declinata questa terzietà che secondo noi è perfettamente riconosciuta, al di là di quella che è l’etichetta formale che si pone sul ruolo del pubblico ministero, che è certamente parte del procedimento, ma che sicuramen te è una parte che si deve distinguere, perché la legge e l’interesse dei cittadini lo richiedono, da quella che è la parte privata rappresentata dalla difesa. Il diritto di difesa – delineato dal 111 e assolutamente non in discussione – prevede che il difensore deve sempre e comunque attivarsi per l’assoluzione del proprio assistito (se questi lo richiede) e che non è tenuto a esibire prove a carico dello stesso: si tratterebbe anzi di un atteggiamento di verosimile rilievo disciplinare. Il P.M. è libero nelle sue scelte, non ha una obbligazione di risultato: può sbagliare ma deve operare a 360° per la ricostruzione dei fatti e la verifica sulla sussistenza di responsabilità. Non solo: oggi più che mai, con la riforma Cartabia, deve valutare il quadro probatorio con l’“occhio” dell’organo giudicante, e non esercitare l’azione penale se non a fronte della ragionevole previsione di una condanna. È questo il P.M. che vogliamo delineare come avvocato dell’accusa?

Dobbiamo occuparcene, perché lo avete scritto nei vostri documenti, che con la separazione delle carriere il P.M. sarebbe relegato fuori dalla cultura della giurisdizione. Ricorda Tullio Padovani in un suo recente scritto che se per giurisdizione “si intende lo jus dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta, né più né meno, che del munus giudiziale per eccellenza: esattamente ciò che qualifica il giudice, e solo il giudice”. Fuori da questo non rimane che la cultura della legalità che ovviamente deve appartenere a tutti i soggetti del processo.

Rocco Maruotti: A mio giudizio nel sistema attuale, che noi difendiamo, ciò che accomuna giudice e pubblico ministero è la comune “cultura della prova”. Inoltre, osservo che la caratteristica essenziale del sistema accusatorio è la regola del contraddittorio nella formazione della prova davanti al giudice, scritta nell’art. 111 della Costituzione dal 1999 e che, perciò, da ben 25 anni convive con l’unicità della carriera dei magistrati, a dimostrazione che quest’ultima è pienamente compatibile con il processo di tipo accusatorio. Infine, alla citazione di Tullio Padovani vorrei rispondere con quella di un avvocato e padre della Costituzione, Piero Calamandrei, secondo il quale “fare giustizia è come cercare di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà” e questo è ciò che oggi fanno, non solo i giudici, ma anche i pubblici ministeri quotidianamente.

Se la preoccupazione è quella di maggiori garanzie dell’indipendenza del P.M. e la netta opposizione a meccanismi di sorteggio per i due CSM e per l’Alta Corte, perché ANM non ha avanzato precise proposte su questi punti? Magari trovereste qualche condivisione, forse inaspettata.

Rocco Maruotti: L’Anm ha espresso preoccupazioni per una riforma che giudica dannosa per i cittadini nel suo complesso. Non ci sono aspetti del testo che riteniamo condivisibili, perché quello che si vuole costruire è un sistema che produrrà inevitabilmente un indebolimento del giudiziario dovuto alla riduzione del grado di autonomia e indipendenza del pubblico ministero, che inevitabilmente riverbererà i suoi effetti anche sul giudice. E poiché autonomia e indipendenza della magistratura non sono negoziabili, per noi non ci sono margini per una trattativa. Infine, mi pare che l’approvazione alla Camera di un testo blindato, con una discussione in cui non vi è stato spazio neppure per emendamenti proposti da uno dei partiti di maggioranza, sia la dimostrazione che i margini per un confronto sono quasi inesistenti.

La nuova presidenza ritiene di poter dare un segno di apertura, quantomeno affermando la necessità del confronto sui singoli profili della riforma, o pensate davvero di assumere una soggettività politica, come associazione, pronti all’eventuale passaggio referendario?

Cesare Parodi: La nostra non è certamente una posizione politica intesa strettamente come ideologico-politica; dopodiché è evidente che qualunque presa di posizione può assumere una natura politica, ma la nostra scelta è quella di difendere alcuni dei princìpi presenti nell’attuale Costituzione. Il nostro obiettivo è quello di mantenere vivi e vitali quei princìpi, a tutela delle garanzie dei cittadini, direttamente o indirettamente. Quindi, se questo è un atteggiamento politico, certamente la nostra è una scelta politica, ma se si parla di politica come opposizione a qualcuno o a qualcosa, allora sicuramente no. Indubbiamente, se ci sarà una campagna referendaria ci coordineremo con i soggetti disponibili a difendere quei princìpi che abbiamo scelto di fare nostri.

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Lei, Presidente Parodi, in una sua prima dichiarazione, ha riconosciuto che il progetto di riforma non prevede l’assoggettamento del PM al potere politico anche se ha detto che il pericolo rimarrebbe potenziale. Se è così, la vostra non rischia di apparire agli occhi dei cittadini come una battaglia contro i mulini a vento?

Cesare Parodi: Noi sappiamo perfettamente che l’attuale disegno di legge non prevede ancora questa prospettiva, ma sappiamo anche che la principale preoccupazione mia, della giunta e credo della maggior parte dei colleghi, è che si tratta della strada che potenzialmente può portare, magari anche in tempi brevi, ad un assoggettamento effettivo. E si tratterebbe, non c’è ombra di dubbio, del maggior pericolo per il sistema e per l’interesse dei cittadini che si può presentare. Noi riteniamo giusto fin da oggi mettere in chiaro che questo obiettivo, se sarà un obiettivo del futuro, è comunque già una preoccupazione del presente perché si tratta di un aspetto centrale del sistema penale.

In un documento del comitato direttivo dell’ANM, citato in un vostro opuscolo divulgativo, si legge che la separazione delle carriere determinerebbe “l’isolamento del pubblico ministero, mortificandone la funzione di garanzia e abbandonandolo ad una logica securitaria”. È veramente difficile anche solo intravedere nella riforma la trasformazione del pubblico ministero in uno sceriffo. Come potrebbe avere più poteri di quelli che già ha?

Rocco Maruotti: Nei sistemi processuali di tipo accusatorio puro, il pubblico ministero non è una parte imparziale, obbligata a cercare e produrre a dibattimento anche le prove a discapito dell’imputato, ma un accusatore puro, la cui carriera dipende anche dai risultati ottenuti, in termini di condanne che in qualunque modo è riuscito a fare infl iggere. Noi non pensiamo che con la riforma il pm avrebbe più poteri di quelli che ha adesso, ma siamo sicuri che si porrebbero le basi per un mutamento genetico del ruolo dell’accusa pubblica, che rischierebbe una deriva autoreferenziale, che presto ne imporrebbe un controllo politico. Come del resto ha osservato anche Marcello Pera, in un suo recente scritto pubblicato su Il Foglio, in tutti i sistemi in cui il pubblico ministero è separato dal giudice esiste una forma di controllo politico sul suo operato. E, infatti, è così ovunque, persino in Portogallo.

Nello stesso documento si legge che la previsione di due diversi CSM, uno per i pubblici ministeri e l’altro per i giudici, comporterebbe “un subdolo affidamento della direzione dei due organi alla componente di nomina politica”. Come è possibile sostenere questa tesi se è previsto che la maggioranza rimanga saldamente in mano ai magistrati, come del resto è oggi con un unico CSM?

Rocco Maruotti: La nostra preoccupazione è che la diversa modalità di selezione delle due diverse componenti dei due futuri CSM, estrazione a sorte secca per i togati e sorteggio temperato per i laici, oltre a privare di rappresentatività e di autorevolezza la componente togata, produrrà uno squilibrio sul piano della diversa capacità di incidere sulle dinamiche consiliari. L’attività di consigliere superiore richiede specifi che competenze ordinamentali e non solo, che non sono appannaggio di qualsiasi magistrato. In questo senso, mentre il sorteggio temperato dei laici potrebbe lasciare margini di selezione, il sorteggio secco dei togati, invece, oltre a rappresentare una mortifi cazione che nessun organo di rilevanza costituzionale conosce, potrebbe produrre effetti dannosi per lo stesso funzionamento del CSM.

Andrea Mirenda, componente togato del CSM, segnala come sarebbe necessaria, proprio da parte della magistratura associata, la denuncia dei guai determinati dal correntismo e difende il sorteggio come risposta alle sue degenerazioni. Sono anche questi i malumori registrati tra chi non condivide lo sciopero del 27 febbraio?

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Cesare Parodi: Su questo punto dobbiamo fare chiarezza. Mai nessuno ha negato i problemi, le criticità e anche il danno di immagine che determinati eventi, determinati comportamenti dei singoli, possono avere determinato. La magistratura associata non si nasconde dietro a una realtà che si è presentata ai cittadini come differente, ma si è trattato indubbiamente di una patologia e non di una espressione fi siologica del momento associativo. Una fase che noi riteniamo assolutamente superata, che può essere contrastata con modalità differenti, che anzi viene contrastata allo stato in modo differente e che non può essere messa in alternativa a una forma di rappresentatività quale potrebbe essere quella del sorteggio. Il collega sorteggiato può essere il migliore magistrato del mondo, ma potrebbe non essere interprete delle comuni esigenze, del comune sentire: non avere, in sostanza, la rappresentatività che è il fondamento della individuazione dei membri di tutti le forme associative. Chiedo io, a chi sostiene la riforma, di portare un esempio – anche solo uno – di rappresentatività degli associati lasciata al caso.

Non credete che la legittimazione del pubblico ministero si rafforzerebbe agli occhi dell’opinione pubblica con la separazione delle carriere, consentendo a tutto il sistema giudiziario di riconquistare credibilità? Nessuno potrebbe neppure adombrare che i provvedimenti del giudice siano condizionati dalla condivisione della stessa carriera, dello stesso CSM, con il P.M.

Rocco Maruotti: Assolutamente no. Al contrario sono convinto che con la separazione delle carriere e lo scivolamento del PM nel ruolo dell’avvocato dell’accusa, la credibilità del PM diminuirebbe. Inoltre, sostenere che solo la separazione delle carriere garantirebbe l’imparzialità del giudice è un’affermazione non solo offensiva nei confronti dei giudici, ma anche falsa, come dimostra il 47% di sentenze di assoluzione pronunciate ogni anno. E se il 47% di assoluzioni è un dato insoddisfacente, ci dicessero quale deve essere la percentuale di assoluzioni affi nché il giudice possa considerarsi imparziale o, forse, sarebbe meglio chiedere quali processi si vorrebbero vedere concludersi con una sentenza di assoluzione. Il Prof. Avv. Franco Coppi in una recente intervista ha dichiarato: “Io non ho mai perso un processo perché il giudice apparteneva alla stessa categoria del PM, semmai l’ho perso perché ho sbagliato qualcosa io o perché ha sbagliato il giudice. Invece attendo ancora di conoscere un elenco dei vantaggi che dovrebbero derivare dalla separazione delle carriere; l’ho chiesto da tempo ma non ho ancora ricevuto risposta”. E io credo che il Prof. Coppi meriti una risposta.

La separazione delle carriere, variamente declinata, è l’assetto ordinamentale diffuso in tutte le democrazie occidentali con sistema processuale accusatorio: la vostra critica, così radicale, va dunque estesa a tutti quei Paesi, o ritenete che la meriti solo l’Italia, ed in tal caso perché?

Rocco Maruotti: In Spagna e in Portogallo, i cui sistemi giudiziari vengono spesso citati come modello di riferimento di questa riforma, oltre ad esserci una netta separazione delle carriere vi è anche un PM controllato dall’Esecutivo, che perciò non gode del requisito dell’indipendenza e che è inserito in una struttura fortemente gerarchizzata come quella delle Forze dell’ordine. Mi rendo conto che un PM davvero autonomo e indipendente come quello italiano è un’anomalia fastidiosa per qualcuno, ma forse lo è soprattutto perché garantisce piena attuazione al principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. E credo che questo modello di PM dovrebbe essere difeso anche e soprattutto dagli avvocati.

Il divieto di assoggettamento del PM “ad ogni altro potere” verrebbe sancito in Costituzione (art. 104 riforma). Pur riconoscendolo, affermate che la riforma fi nirà per eludere quel divieto. Ci spiegate in che modo future leggi ordinarie potrebbero aggirare, eludere o erodere, quell’esplicito divieto costituzionale, per di più nell’inerzia della Corte Costituzionale?

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Cesare Parodi: Rispondo con una domanda. È la formula utilizzata nella riforma (non assoggettamento a ogni altro potere) che deve destare alcune perplessità. Io mi domando: perché non si è parlato del pubblico ministero come di soggetto sottoposto soltanto alla legge come prevede l’articolo 101 per i giudici? Qual è il motivo per cui questo non è avvenuto? Quale è la differenza tra la garanzia di una legge e la formula – “generica” – della mancata previsione di assoggettamento? Come potrà essere declinata questa situazione, per la quale i giudici mantengono la duplice garanzia del 101 e del 104? È sul concetto di “non assoggettamento” – labile e per molti aspetti atecnico – che si gioca la partita.

Eriberto Rosso – Alberto de Sanctis

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