Incontriamo il pianista francese Jean-Efflam Bavouzet in occasione del suo concerto per gli Amici della Musica di Padova (che ho recensito nel numero di marzo di MUSICA). Un concerto interamente dedicato a Maurice Ravel in occasione dei 150 anni della sua nascita, durante il quale Bavouzet ha eseguito tutte le sue composizioni pianistiche in ordine cronologico. Una sfida intellettuale, emotiva e di tenuta fisica straordinaria per uno dei massimi pianisti di oggi.
Ha scelto il pianoforte quando aveva già il diploma al Conservatorio di Parigi. Non era troppo tardi per prendere questa decisione dopo aver studiato oboe, percussioni e persino musica elettronica? Come è nata la sua passione per il pianoforte?
Mia madre, che era insegnante di musica, aveva un’influenza enorme in casa nostra, che era sempre piena di musica. Quando studiavo al Conservatorio di Metz, ero interessato a diversi strumenti contemporaneamente. Un curriculum piuttosto raro: il corso di musica elettronica mi appassionò molto durante la mia adolescenza. Penso che i sintetizzatori analogici potrebbero essere uno strumento molto utile per gli studenti per comprendere, differenziare e controllare i cinque parametri del suono. Nella mia ideale scuola di musica, questo studio — così come la danza, per ovvi motivi di sviluppo del senso ritmico — dovrebbe essere obbligatorio. Ero davvero interessato a molti aspetti della musica, compresi i diversi generi. Negli anni Ottanta ascoltavo tanto Fusion Jazz, con gruppi come i Genesis, ELP, Mahavishnu Orchestra (che trovo ancora molto affascinanti ritmicamente e armonicamente), così come le sinfonie di Mahler e Shostakovich! A un certo punto pensavo anche di diventare un batterista come i miei idoli Billy Cobham o William Kennedy. Tuttavia, a causa della ricchezza impareggiabile del repertorio e delle infinite possibilità di creazione sonora, il pianoforte si è imposto presto e successivamente sono stato molto stimolato dal mio maestro Pierre Sancan al Conservatorio di Parigi.
Ci sono stati insegnanti che l’hanno particolarmente ispirata? C’è qualcuno in particolare che ha avuto un impatto decisivo sulla sua carriera?
Sancan, che era un grande compositore, un fantastico pianista e un immenso pedagogo, mi ha mostrato quanto possa essere piacevole fare pratica. E i progressi sono stati immediati. Successivamente, sono stato fortunato ad incontrare e lavorare con musicisti straordinari. Nel 1985, Horowitz era a Parigi per il suo ultimo tour europeo e mi fu chiesto di suonare per lui. Incontrare una leggenda vivente e avere la possibilità di discutere questioni musicali e pianistiche è stato estremamente stimolante. Ho avuto lezioni meravigliose e rivelatrici con Badura-Skoda su Haydn e Beethoven, Dimitri Bashkirov su Schumann e Liszt, György Sándor su Bartók e Alexander Edelman, che ha migliorato enormemente il mio rapporto fisico con la tastiera e la produzione del suono. Inoltre, ho avuto la grande fortuna di incontrare e suonare più volte con il maestro Georg Solti negli ultimi due anni della sua vita, beneficiando immensamente dei suoi consigli musicali. Mi invitò a suonare con lui il Concerto n. 3 di Bartók, ma purtroppo è scomparso pochi mesi prima dei concerti. Pierre Boulez li diresse e fu l’inizio di una relazione personale molto stimolante. Un impatto decisivo sulla mia carriera è stato anche quello di Vladimir Ashkenazy, che mi ha presentato a Jasper Parrott dopo che avevamo suonato insieme per la prima volta. Poi, per i successivi 15 anni, mi invitò letteralmente ovunque. Abbiamo suonato circa 13 concerti con orchestra. Suonare con lui è sempre stata una festa! Un’enorme influenza per me è stata anche quella esercitata da Zoltán Kocsis. In duo pianistico o suonando sotto la sua direzione, stare sul palco con lui o avere interminabili conversazioni è sempre stato una “ricarica delle batterie musicali” per mesi!
Una delle sue caratteristiche distintive è la capacità di interpretare un ampio spettro di repertori, dal classico al contemporaneo. C’è un compositore o un periodo che sente particolarmente vicino al suo cuore?
Non ho mai suonato musica per la quale non avessi una forte affinità e interesse. Ogni epoca ha il suo modo particolare di esprimere nella musica l’essenza della vita e questi periodi in continuo cambiamento hanno avuto e hanno geni e rappresentanti meno noti. La mia predilezione personale negli ultimi 15 anni è andata ovviamente verso quei compositori che ho registrato, con un particolare affetto per le “figure laterali”, come quelle presenti nel CD “Beethoven Connection”. Questi compositori — Clementi, Hummel, Wölff — sono stati figure importanti nei loro tempi per aver definito un linguaggio musicale comune, con occasionali intuizioni geniali che hanno preparato la strada per i “grandi”.
Parlando di un autore a lei molto caro, Claude Debussy, di cui ha registrato tutte le opere per pianoforte. Cosa cerca di portare nelle sue interpretazioni che le differenzi da quelle di altri pianisti?
Questa è una domanda complessa. Il mio scopo nella musica non è cercare di differenziarmi dai miei colleghi passati o presenti, ma piuttosto cercare di comprendere cosa volesse davvero il compositore, afferrare le sue intenzioni, andare verso “la carne nuda della musica”, come diceva Debussy. E il risultato, ovviamente, è sempre diverso con ogni interprete; il caleidoscopio offrirà un’immagine sempre nuova e viva della sua musica. Questo, ovviamente, vale per l’interpretazione di tutti i compositori.
La sua carriera internazionale è segnata da numerosissimi concerti in tutto il mondo. C’è qualche esperienza o concerto che l’ha particolarmente impressionato?
Mi è piaciuto moltissimo suonare in Russia. Il pubblico lì ascolta la musica, in particolare il pianoforte, con tali passione e interesse che ti trascina letteralmente via. La Carnegie Hall, pur essendo enorme, ti dà la sensazione di suonare in un salotto; lo stesso vale per la Philharmonie di Berlino o di Parigi. Per il recital, la Wigmore Hall di Londra è straordinaria. Apprezzo particolarmente una sala dove hai la sensazione di poter raggiungere tutti quelli che ci sono. Recentemente ho suonato con grande piacere negli splendidi teatri di Reggio Emilia e di Ferrara.
Quali programmi sta preparando ora o in quali registrazioni discografiche è impegnato?
Sto preparando un nuovo CD con altri di questi pionieri ingiustamente dimenticati. Sarà il secondo CD di una serie che ho chiamato “Beethoven Connection”, dove esploro i suoi contemporanei, come Clementi, Dussek, Hummel e molti altri. Trovo affascinante vedere cosa hanno in comune e quali sono le loro specificità, e quindi cosa rende Beethoven così estremo e unico.
Come ci ricordava, lei ha lavorato a stretto contatto con Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, György Kurtág, Maurice Ohana, Bruno Mantovani, e Jörg Widmann, ed è anche un interprete della musica francese meno conosciuta, in particolare quella di Gabriel Pierné e Albéric Magnard. Ci puoi raccontare la sua esperienza con questi musicisti?
Lavorare con un compositore vivente sulla sua musica è un’esperienza di enorme portata. Per fare un’analogia, i grandi compositori sono sulla cima delle montagne e vedono un orizzonte più ampio di noi che siamo a valle. Trovano nuovi gesti musicali sconosciuti al nostro vocabolario musicale. E questi gesti o grammatica a volte sono difficili da capire solo guardando lo spartito. Nel caso di Mozart o Beethoven possiamo solo speculare su come essere rispettosi delle loro intenzioni. Ma quando hai il compositore di fronte, lei o lui può guidarti e per un po’ ti porta sulla cima della montagna, mostrandoti la direzione da prendere. Ancora di più: il tuo vocabolario musicale, così arricchito, ti permette di applicare questi nuovi concetti anche ai compositori del passato. Alcune idee che Kurtág mi ha fornito, per esempio, mi hanno aiutato a comprendere meglio Beethoven. Lo stesso con Boulez e Debussy.
In questi mesi è in tournée con un programma assai impegnativo in termini di durata e di difficoltà tecnico: l’esecuzione completa delle opere pianistiche di Ravel in una sola serata. Un tributo al grande compositore francese in occasione del 150° anniversario della sua nascita. Quali sono le caratteristiche che rendono il suo pianismo unico e come si differenzia da quello di Debussy?
Esplorando l’intera opera di un compositore si possono vedere chiaramente tutte le connessioni tra i pezzi e la loro evoluzione. Ravel trovò il suo stile piuttosto velocemente e, anche se alla fine tende ad alleggerire la sua scrittura pianistica, non possiamo parlare di un’evoluzione drastica del suo linguaggio musicale. Per fare degli esempi contrari: Beethoven, Liszt o Bartók hanno chiaramente periodi diversi. Con le sue proporzioni classiche, l’eleganza e la raffinatezza, trovo Ravel molto francese. Molto di più di Debussy. E devo ammettere che mi sento molto francese quando suono Ravel.
Lei è un pianista che registra molto. Ha recentemente completato tutte le Sonate di Haydn, sta registrando tutti i Concerti di Mozart. Le sue registrazioni comprendono tutte le opere di Beethoven, ma anche Bartók, Prokofiev, Schumann. Di Ravel c’è anche una vecchia registrazione del 2004. Uscirà una nuova incisione?
Sono molto felice e piuttosto orgoglioso di dirle che, con le ultime uscite in arrivo presto, ho completato la registrazione di tutti e trenta i Concerti di Mozart con la grande Manchester Camerata e il mio caro amico Gabor Takács-Nagy. E una nuova registrazione delle opere soliste complete di Ravel sarà disponibile ad aprile. I nuovi progetti includono inoltre la già menzionata continuazione di “Beethoven Connection”.
Come costruisce i suoi programmi concertistici?
Per essere soddisfacente intellettualmente ed emotivamente, un recital dovrebbe avere una propria logica. Non mi dispiace mescolare stili e avere pezzi di generi contrastanti, se sono comunque connessi tra loro. Nella mia ultima serie di recital su Debussy alla Wigmore Hall ho alternato Valzer, Ballate, Mazurche e Tarantelle di Chopin e Debussy. Ci sono stati alcuni momenti di “fusione” quasi completa tra i due, così simili sono i loro mondi sonori. E lo stesso sentimento con Schumann e Debussy a confronto con le loro Arabesques e Träumerei/Rêverie. Quanto più possibile mi piace far emergere corrispondenze tra periodi diversi invece di costruire programmi lineari. Un pezzo jazz dopo Stravinsky, Ravel o Debussy ha perfettamente senso. Ma probabilmente dopo l’ultima Sonata di Schubert sarebbe un salto emotivo che il mio cervello e cuore non sono pronti a gestire.
Lei tiene la cattedra internazionale di Pianoforte al Royal Northern College of Music ed è membro del Consiglio Consultivo del Pianofest negli Hamptons. Quali sono i suggerimenti più importanti che offre agli studenti che frequentano i suoi corsi?
Coltiva la tua personalità per comunicare, approfondisci la tua conoscenza per essere in grado di catturare l’essenza della creazione di ogni compositore, sii tecnicamente pronto per realizzare le tue idee — e poi vai, suona! Se fai capire e amare i misteri della vita a una sola persona dopo un concerto, missione compiuta! Come professionisti, affrontiamo costantemente la frustrazione quando un concerto non va come pensavamo dovesse andare, con la pratica ossessiva, concentrandoci su dettagli microscopici e sulla perfezione, tendiamo (io per primo!) a dimenticare cosa la musica possa portare a chi la ascolta, la gioia e l’energia che può dare. La vita che può dare!
Un’ultima domanda: quale pensa sia il ruolo del pianista oggi? In un mondo dove la musica è sempre più digitalizzata, quale valore ha ancora la performance dal vivo?
Non credo, come diceva Glenn Gould, nella diminuzione dell’interesse per un’esperienza musicale dal vivo. Tutti vogliamo condividere un momento unico, irripetibile. Vedere l’ottantaquattrenne Herbie Hancock sul palco in Australia lo scorso ottobre è stata un’esperienza davvero rinvigorente per tutti in sala! Qualcosa che nessuna registrazione può eguagliare. D’altra parte, sono preoccupato per la quasi scomparsa dell’educazione artistica nelle nostre scuole. Gli esseri umani sono fatti di corpo e anima, e entrambi hanno bisogno di nutrimento per la sopravvivenza.
Stefano Pagliantini
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