di Natascia Curto*
Si arricchisce di un nuovo ed importante contributo il confronto pubblico avviatosi pochi giorni fa sul rinvio di un anno, stabilito dal Governo, della piena applicazione del Decreto Legislativo 62/2024, attuativo della Legge Delega 227/2021 in materia di disabilità. Un confronto scaturito da un primo intervento di Ciro Tarantino, professore di Sociologia del diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. Con piacere oggi diamo spazio al testo di Natascia Curto, ricercatrice in Pedagogia e Didattica Speciale del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino, che per scrivere queste riflessioni attinge alla sua esperienza presso il Centro Studi per i Diritti e la Vita Indipendente della medesima Università.
Colgo anche io l’invito dei colleghi Ciro Tarantino e Cecilia Marchisio a mettere elementi nel dibattito che si è generato in seguito al rinvio da parte del Governo della piena entrata in vigore della Riforma della disabilità [i contributi di Tarantino e Marchisio sono pubblicati rispettivamente a questo link e a quest’altro link, N.d.R.].
L’anno 2026, in cui si prevedeva la completa attuazione, segna vent’anni dall’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. È proprio dal lavoro sul campo, con i servizi socioeducativi, con le famiglie, con le persone con disabilità svolto in questi vent’anni dal Centro di ricerca universitario in cui lavoro che arrivano le considerazioni riportate in questo articolo: mentre scrivo mi tornano alla mente i volti, i tentativi, la grande professionalità, fino all’abnegazione, la cura, la speranza, l’altissimo livello di tecnica ed etica che in questi vent’anni ho incontrato.
Già, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità: il primo punto necessario di chiarezza riguarda, infatti, che cosa è stato rimandato. Il decreto legislativo 62/2024, che porta in sé molti dei cambiamenti della Riforma, pur approvato, in qualche modo non era ancora pienamente in vigore. Si legge che vi era una fase sperimentale: ma cosa significa? Significa che qualcuno poteva in qualche modo fruirne? Poi, con il rinvio, questa sperimentazione è stata allargata, ma quindi vuol dire che sempre più persone possono fruirne? E allora che cosa è stato rinviato? Non è piuttosto un allargamento? Perché la gente si lamenta?
Diversi commentatori, inoltre, sembrano minimizzare il rinvio dell’entrata in vigore, segnalando che comunque, vi sarebbero altre strade per arrivare agli stessi risultati: si può, affermano, “lo stesso” avere un progetto personalizzato, quindi un anno o due non fa tanta differenza.
Ma davvero è così? Ciò che non entra in vigore in realtà c’è già? Non è un po’ confuso? Se c’è già perché deve entrare in vigore? E se il progetto personalizzato si può già fare, se i cambiamenti sono minimi, se il sistema resterà sostanzialmente lo stesso, allora perché autorevoli commentatori giuridici e tecnici, oltre al Governo stesso, definiscono questa riforma una faglia epocale? In che senso è epocale una Riforma che non fa che ribadire strade già sostanzialmente percorribili senza la sua entrata in vigore? E, infine, se davvero è così, se in sostanza si fa da vent’anni, perché ci si affanna – e si investono risorse – per sperimentare? Qualcosa non torna.
Proviamo a fare un po’ di ordine. Ciò che è stato rimandato è l’entrata in vigore del decreto legislativo 62/2024, cioè è il momento in cui un cittadino con disabilità può pretendere dallo Stato l’opportunità di praticare nella sua vita di tutti i giorni i diritti Costituzionali le libertà fondamentali su base di uguaglianza con gli altri cittadini. Sappiamo tutti, infatti, che l’affermazione in base a cui i cittadini sono uguali in libertà e diritti, l’idea cioè che tutti possono scegliere come condurre la loro esistenza, scegliere dove o con chi vivere, che lavoro fare, se lavorare o no, se diventare genitori, come praticare le libertà quotidiane sono diritti sanciti, ma non per tutti praticabili. Alcune persone, tra cui quelle con disabilità, vedono questi diritti quotidianamente impediti nel loro esercizio dalla mancanza di sostegni e da contesti che non sono pensati per includerli. Ma, dopo la Convenzione ONU, la presenza della disabilità nella vita di un cittadino non può essere una giustificazione perché egli viva una vita scelta da altri, fatta di luoghi speciali, in cui non può perseguire le sue aspirazioni o partecipare al quotidiano svolgersi della vita civile. Non può essere una giustificazione, dice la Convenzione ONU, ma succede. E allora cosa facciamo? La Riforma del sistema, per garantire che lo Stato, attraverso i servizi di welfare, fornisca ad ogni persona con disabilità tutti i sostegni e metta in campo tutte le modifiche dei contesti che gli consentono di vivere su base di uguaglianza con gli altri.
Utopia? Qualcosa di irraggiungibile? Un sogno? All’approvazione della Convenzione qualche scettico si incontrava, ma questi vent’anni hanno dimostrato che, invece, si può. E la scelta del progetto personalizzato come strumento principale per rendere realtà questa prospettiva è fondata proprio nella pratica degli anni in cui l’attuazione della Convenzione ONU si è sviluppata. Ma non solo: l’impianto del decreto 62 raccoglie anche cinquant’anni di storia di pratiche, sviluppate nella costruzione concreta, reale, quotidiana nel nostro Paese: pensiamo ai processi di deistituzionalizzazione (non a caso una delle realtà firmatarie di uno dei comunicati più centrati sul tema è UNASAM [Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale, il comunicato a cui si riferisce l’Autrice è disponibile a questo link, N.d.R.]), o a quelli che hanno costruito l’inclusione scolastica (non a caso contemporaneamente sotto attacco da parte del medesimo governo che rinvia): due impianti culturali e normativi peculiari del nostro Paese, che tutto il mondo studia. L’attuazione della Convenzione ONU è possibile dunque, e gli strumenti operativi li abbiamo già in mano. Ma fino al 1° gennaio 2026 sarebbe rimasta realtà solo per qualcuno, fortunato abitante di un territorio dove il servizio sociosanitario sceglieva di innovare. Ora, è realtà solo per qualcuno fino al 1° gennaio 2027. Ecco cosa è stato rimandato: il momento in cui questa prospettiva, questi sostegni, questi diritti, queste opportunità di condurre una vita libera e nel mondo di tutti diventano qualcosa che tutte le persone possono richiedere e ottenere in modo certo. Già da questa semplice descrizione è evidente che il progetto post Riforma non è lo stesso di prima.
A mio avviso, inoltre, è evidente anche dalle reazioni che si sono osservate riguardo a questo rinvio, che hanno rivelato una polarizzazione delle posizioni fino ad ora rimasta sottotraccia. Se vi è, infatti, tutta un’area (trasversale ad attivismo istituzionale, tecnici e analisi) che ha teso a rassicurare e minimizzare, dall’altra parte, insieme alle analisi critiche dei tecnici specialisti della personalizzazione, l’attivismo dal basso di famiglie e persone con disabilità è insorto con il motto Adesso basta. “Adesso basta, siamo stufi di aspettare”.
Ma che cos’è che aspettavano se il progetto individuale c’è già?
Aspettavano il momento in cui rivolgendosi ai servizi socioassistenziali, che per mandato hanno il compito di supportare la loro esistenza, questi sarebbero stati obbligati a dare una risposta diversa dal collocamento in luoghi speciali, dai percorsi volti ad acquisire competenze per poter accedere ai diritti, dalle strutture come unica risposta al bisogno di sostegno intensivo. Aspettavano il momento in cui il loro diritto non avrebbe più potuto essere corrispondente a una prestazione (tre ore di educatore, due sedute di logopedia) ma avrebbe attivato il progetto di vita individuale personalizzato e partecipato: lo strumento che la normativa individua per concretizzare nella vita delle persone la prospettiva della Convenzione ONU. Lo aspettavano proprio perché non è uno strumento a caso: si tratta del mezzo individuato da anni di studi, di lavoro sul campo, di ricerca e di anni e anni di messa alla prova concreta, che è stato individuato proprio in virtù della sua applicabilità, efficacia e sostenibilità.
Si tratta, infatti, dell’unico strumento in grado di fare contemporaneamente le due cose che adesso c’è bisogno di fare: superare i servizi standardizzati e dare senso e concretezza a quella, tante volte sbandierata, centralità della persona, che spesso nella quotidianità dell’esistenza viene subordinata alla disponibilità di prestazioni standard, di posti nei servizi, di requisiti per accedere ai progetti, di ore uomo disponibili, di fondi.
Tutto questo rende il progetto di vita individuale personalizzato e partecipato completamente e radicalmente diverso da ciò che è già garantito. Sia dalle prestazioni combinate in modo individualizzato garantite dalla Legge 328 del 2000, che dalle possibilità di individualizzare i sostegni garantite da leggi regionali, pur avanzate come la Legge 25/2022 della Lombardia. Si tratta di strumenti precedenti, nati con altri scopi e soprattutto concepiti per muoversi in un diverso sistema, con diversi principi di potere, con un diverso rapporto tra condizione di disabilità e diritti, con una diversa cornice culturale e giuridica.
Mentre lo scrivo, mentre mi propongo di argomentare perché è diverso, mi sento di svolgere un lavoro quasi ridicolo per ovvietà. Se dal punto di vista giuridico, il perché una Riforma del sistema è diversa da una legge regionale è tanto chiaro che non ha senso ribadirlo, dal punto di vista delle pratiche le differenze che mi saltano alla mente vengono dalle voci di tantissimi operatori – assistenti sociali, educatori, psicologi – che in questi anni ho incontrato lavorando sulla personalizzazione: nessuno che abbia provato con serietà a mettere in campo un progetto personalizzato pienamente rispettoso della Convenzione ONU direbbe che è lo stesso di un qualcosa che c’è già.
Mentre scrivo, negli occhi ho proprio questo: le migliaia di ore di incontri di equipe, di supervisione, di accompagnamento, di ragionamento, in cui con gli operatori ci confrontavamo sul fare, in cui trovavamo soluzioni, in cui costruivamo processi in grado di spostare il potere nelle mani delle persone, in cui si costruivano modelli in cui tra etica e tecnica non si era mai chiamati a optare, modelli che oggi sono modi consolidati, attuabili e gratuitamente a disposizione di tutti.
Ammesso, dunque, di fare finta di niente davanti alla nota, che è emersa da più parti e che mi trova completamente d’accordo, che i diritti non si sperimentano, oggi che l’attuazione è stata rimandata a favore di una maggiore sperimentazione, viene da domandarsi una sperimentazione di che cosa. Che cos’è esattamente che dobbiamo capire come fare in questo anno e mezzo? La deistituzionalizzazione? Ci diamo sei mesi, e poi un anno, per capire come fare la deistituzionalizzazione, che costituisce l’asse portante della storia dei servizi del nostro Paese dal 1978? Che fa dell’Italia un unicum al mondo? Oppure dobbiamo imparare a fare la personalizzazione? Che pure è stata oggetto in questi anni di decine e decine di esperienze su tanti territori, costruite insieme alle persone, insieme alle famiglie, insieme agli attivisti, insieme a tutti quegli operatori pronti a mettersi in gioco, disponibili a investire, a lavorare con serietà su questo tema. Quella stessa personalizzazione che è il cuore del decalogo professionale uscito, solo pochi mesi, fa dal al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, con indicazioni molto chiare su come si fa? O dobbiamo scoprire quali sono i meccanismi di finanziamento, che già il decreto indica come centrati sul budget di progetto, anche quello frutto di ampie esperienze in diverse aree del Paese, per cui si hanno a disposizione fiumi di pubblicazioni, non ultimo il report della ricerca Equal, commissionata proprio dalla Presidenza del consiglio dei Ministri? Che cos’è che si sta dichiarando di non saper ancora fare, di avere bisogno di più tempo per costruire? Siamo sicuri che sia il modo di progettare e non il modo di mantenere invariato il sistema attuale, a valle della riforma?
Ragionamento gemello è quello sulle risorse. Si legge da diversi commenti che uno dei “blocchi” alla Riforma sarebbe la mancanza di finanziamenti adeguati. Certo, miglioramenti degli assetti di finanziamento ci possono essere, come il Fondo Unico, immaginato dalla Ministra Stefani e abbandonato nei programmi dell’attuale dicastero. Ma la retorica dei fondi scoperchia direttamente l’altro nodo, quello che costituisce il cuore operativo della libertà per le persone e le famiglie: la convertibilità delle risorse ad oggi bloccate nelle rette. L’entrata in vigore del decreto nel 2026 avrebbe aperto lo spazio per usare le risorse che lo Stato ad oggi spende per pagare gli inserimenti in struttura, destinandole a fornire i sostegni alla vita libera delle persone. Allora il problema è che ci siamo perduti in un cavillo applicativo? Che non sappiamo come si fa una progettazione personalizzata? O ci si sta scontrando contro l’intenzione – squisitamente politica – di rivedere le parti della Riforma in cui c’è il rischio di toccare le risorse che sono già storicamente allocate alle strutture? Considerando l’esigenza opportunistica di non compromettere in alcun modo l’equilibrio delle rendite di posizione garantito dall’attuale sistema? La polarizzazione del dibattito di questi giorni aiuta a chiarire lo scenario: ciò che non si è riuscito a fare, ciò che non si sta riuscendo a capire non è come si fa la personalizzazione ma, molto più prosaicamente, come conciliare i processi di emancipazione delle persone con il sistema esistente: è l’esigenza politica di conciliazione di una Riforma così radicale, così liberatoria per le persone, con il salvataggio di quel che c’è a bloccare oggi la piena attuazione, a far correre ai ripari con un rinvio a sei mesi dall’entrata in vigore, a mettere nuovamente a dura prova la speranza di libertà delle persone e delle famiglie.
Se questo sia intenzionale o involontario, non è dato saperlo, se sia frutto di un moto di autoconservazione da parte degli enti gestori o della confusione tra scarsa competenza e scarsa fiducia nella possibilità di cambiamento sociale, io naturalmente non lo so. Ma una cosa la so, perché l’ho vista. Spesso sento dire che bisogna partire dall’esistente, che non si può buttar via l’esistente, che, in qualche modo, quel che c’è va salvaguardato. Si intende con questo motivare un depotenziamento del progetto personalizzato come garantito dal decreto 62, rappresentandolo nel modo grossolano e fuorviante che lo rende una versione con linguaggio un pochino migliorato del progetto individualizzato pensato dagli estensori di una legge di 26 anni fa. Quando assisto a questa operazione centrata sulla tutela dell’esistente, mi domando sempre ma chi è che sceglie che cosa esiste? Perché in questi anni, proprio realizzando progetti personalizzati in attuazione della Convenzione ONU sui territori, ho incontrato persone con disabilità, famiglie, operatori, dirigenti, decisori. Ed esistevano, esistono. Abbiamo incontrato i genitori il giorno in cui viene detto loro che l’unica cosa possibile per il loro figlio è quella struttura, dove sanno che dovranno sedarlo per farlo restare. Abbiamo incontrato quella donna sola che combatteva, pochi giorni dopo aver perso il marito, di fronte a un sistema che spingeva l’inserimento dell’unico figlio in un luogo istituzionalizzazzante. E abbiamo visto scrivere sul verbale del colloquio “la signora, testardamente, resiste”. Abbiamo incontrato, sulla porta del centro diurno, gli operatori con il cuore in gola, a vedere transitare ogni mattina persone per ciascuna delle quali avrebbero in mente la possibilità di aprire nuove progettualità, bloccate dal sistema che li vincolava al luogo, all’uno a cinque, alla frequenza quotidiana. Abbiamo incontrato i tentativi di apertura di libertà da parte di educatori e di assistenti sociali costretti ad assumere su di sé il rischio di quella libertà, anche a costo di trovarsela sbattere in faccia, il giorno che questo rischio si trasforma in un danno. Abbiamo incontrato dirigenti di servizio che spingono alla personalizzazione come l’ultimo desiderio, quando non hanno più niente da perdere, come “l’ultima cosa che faccio prima di andare in pensione”, dirigenti a tutti i livelli che si prendono la responsabilità di fare la telefonata per spostare quei fondi, per cercare in tutti i modi di costruire un’opportunità diversa, famiglie che combattono allo stremo delle loro forze, dormendo una notte su cinque, per non dover scegliere quale dei due figli con disabilità va in struttura, persone che diventano attivisti per alzare la propria voce contro un’esperienza di oppressione quotidiana, provando a riprendersi quella voce per provare a rappresentarla.
E, soprattutto, abbiamo visto vite cambiare: accompagnate dai progetti personalizzati che non partono dai servizi che ci sono, ma muovono da quello che la persona è e da quello che, nella profondità della differenza che porta, desidera e realizza ogni giorno nella propria comunità. Ho visto persone vivere una vita piena in scambio con la collettività, abitare nella propria casa con tutti i sostegni, svolgere un lavoro liberamente scelto ed equamente retribuito. Indipendentemente dalle caratteristiche, dall’intensità dei sostegni, dai modi di essere umani. Ho visto tutto questo sui territori, su base di uguaglianza con gli altri, realizzato attraverso il dispositivo del progetto personalizzato. Tutto questo è l’esistente da salvaguardare. E tutto questo riceve un colpo durissimo dal rinvio della messa a sistema, che carica nuovamente sulle spalle di ciascuna di queste persone la fatica del cambiamento.
* Ricercatrice in Pedagogia e Didattica Speciale del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino, nonché componente del Centro Studi per i Diritti e la Vita Indipendente della medesima Università.
Vedi anche:
Simona Lancioni, Il rinvio dell’attuazione della Riforma sulla disabilità e il conflitto di interessi, «Informare un’h», 23 febbraio 2025.
Giampiero Griffo, Le voci dei diritti, «Informare un’h», 21 febbraio 2025.
Cecilia Marchisio, Chi ha paura dei progetti personalizzati?, «Informare un’h», 20 febbraio 2025.
Comunicato congiunto di PERSONE (Coordinamento nazionale contro la discriminazione delle persone con disabilità), Movimento antiabilista e UNASAM (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale), Adesso basta! Senza Riforma sulla disabilità non c’è futuro, «Informare un’h», 20 febbraio 2025.
Ciro Tarantino, Il gioco del silenzio, «Informare un’h», 19 febbraio 2025.
Ultimo aggiornamento il 24 Febbraio 2025 da Simona
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