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Sulle motivazioni che spingerebbero Donald Trump e la sua amministrazione ad accelerare i tempi di una tregua e di una soluzione di pace per la guerra russo-ucraina che pare molto accomodante con le richieste e le ragioni russe, se ne sentono di ogni tipo.
Si va dall’insinuazione che a muoverlo sarebbe la simpatia per lo stile e i contenuti dittatoriali dell’azione di Vladimir Putin, o la tendenza all’affarismo spregiudicato che gli fa vedere nella Russia autoritaria attuale un partner per operazioni ad alto tasso di profitto e nell’Ucraina indebolita una controparte ricattabile per altrettanti fini affaristici, o tutte e due le cose insieme, ad analisi più politiche e sofisticate che alludono a una manovra kissingeriana per mettere un cuneo nell’alleanza fra Russia e Cina e farsi amica la prima ai danni della seconda, così come cinquant’anni fa gli stessi americani operarono al contrario, staccando la Cina dalla Russia per farsi amica la seconda a scapito della prima, o che alludono al cinico realismo politico che fa giudicare agli Usa non più praticabile la strada dell’egemonia unipolare post-1989, mentre il perseguimento dell’equilibrio di potenza multipolare in collaborazione con Russia e Cina permetterebbe loro di evitare un lento declino e anzi di recuperare posizioni.
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Il sondaggio Gallup
C’è una motivazione che nessuno sembra prendere in considerazione, ma alla quale dovrebbe essere dato un certo peso: la diffusa insofferenza per le guerre da parte di coloro che vi hanno preso parte come soldati degli Stati Uniti e si sono sentiti traditi, la delusione per l’esito dei conflitti ai quali gli americani hanno partecipato. Ci sarebbe anche il fatto che, per la prima volta dal dicembre scorso, gli americani favorevoli a una rapida conclusione del conflitto in Ucraina, anche se questo volesse dire consentire alla Russia di tenersi il territorio che ha conquistato, sono più numerosi di quelli che sostengono che gli Usa devono continuare ad aiutare gli ucraini a recuperare il terreno perduto, anche se questo significasse allungare i tempi del conflitto (vedi i sondaggi Gallup sull’argomento condotti a partire dall’agosto 2022).
Ma lasciamo stare i sondaggi e occupiamoci di coloro che hanno preso parte alle campagne dell’Iraq e dell’Afghanistan – due guerre che hanno visto la morte di quasi 7 mila militari americani e il ferimento di oltre 52 mila, senza che gli Usa ottenessero gli obiettivi politici che si erano prefissi, soprattutto quelli più nobili come l’esportazione della democrazia e la promozione dei diritti delle donne.
Vance, Gabbard, Ruger
Con J.D. Vance, per la prima volta, un veterano di queste due mal concepite campagne militari ha fatto parte di un ticket presidenziale, e il voto degli elettori lo ha portato alla Casa Bianca come vice presidente. Quando era senatore, Vance ha motivato il suo voto contrario ai più recenti stanziamenti a favore dell’Ucraina con i postumi delle sue esperienze irachene: «Ho servito il mio paese con onore, e quando sono andato in Iraq ho visto che mi era stato mentito». Il vice presidente era partito volontario: «La mia giustificazione è che ero un fresco diplomato delle medie superiori. Qual è la giustificazione per molte persone che sedevano in Senato o alla Camera dei rappresentanti a quel tempo e ora stanno cantando esattamente la stessa canzone nei riguardi dell’Ucraina? Non abbiamo imparato niente?».
Tulsi Gabbard, scelta come responsabile politica dei servizi segreti dall’amministrazione Trump, volontaria della Guardia Nazionale, ha servito in Iraq in un’unità medica nel periodo più difficile (fra il 2004 e il 2005) nonostante avesse la possibilità di evitare il dispiegamento. «Ha cambiato la mia vita», dice oggi nelle interviste. Ma soprattutto ha cambiato il suo modo di fare politica in tema di guerra e di pace: da allora sostiene che gli Usa devono combattere i terroristi con droni e operazioni speciali, ma non devono impelagarsi in guerre di regime change: «Quando si tratta di guerra contro i terroristi, sono un falco, ma quando si tratta di guerre controproducenti per cambi di regime, sono una colomba. Tali guerre minano la nostra sicurezza nazionale e… in realtà aumentano la sofferenza delle persone nei paesi in cui le conduciamo».
William Ruger, presidente dell’American Institute for Economic Research, è un altro veterano dell’Afghanistan e nel 2020 fu nominato ambasciatore in quel paese dalla prima amministrazione Trump, nomina poi revocata da Joe Biden. Sull’Ucraina e sulla sovraesposizione americana nelle guerre post-1989 ha detto: «Non è sempre il 1938. Ci sono momenti in cui gli Stati Uniti hanno bisogno di confrontarsi con una potenza in ascesa. E ci sono momenti in cui i leader o i paesi fanno cose che non ci piacciono, ma in cui l’astensione è davvero lo scenario migliore, e non penso che ciò significhi necessariamente “appeasement”».
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Pensare tragicamente
Tulsi Gabbard e J.D Vance sono ex democratici passati con Trump, invece Robert D. Kaplan, ieri inviato di guerra per The Atlantic, Washington Post e New York Times, oggi politologo, è e resta uomo di simpatie democratiche, ma anche lui è un pentito della partecipazione americana alle guerre per l’esportazione della democrazia, di cui si sente moralmente responsabile per gli articoli e i libri scritti in passato.
Due anni fa ha dato alle stampe La mente tragica, una perorazione per il realismo in politica estera e contro l’idealismo e il moralismo neo-conservatori che tanti danni hanno fatto all’America e al mondo. «A spingermi a scrivere questo libro è stata la depressione di cui ho sofferto per anni dopo l’errore di valutazione che avevo commesso rispetto alla guerra in Iraq», scrive nell’introduzione.
«Il rovesciamento di Saddam Hussein è stato un bene, ma è andato a sostituire un bene più grande: la parvenza dell’ordine. Persino il suo governo autoritario e senza legge non era il peggior caos che potesse colpire l’Iraq: senza di lui, centinaia di migliaia di persone hanno trovato una morte violenta. (…) L’Iraq è stato un fallimento di dimensioni quasi epiche non per la presenza del male, ma perché i nostri leader, dopo la fine della Guerra fredda, hanno perduto la capacità di pensare tragicamente».
Il regime peggiore e l’anarchia
Il pensiero tragico è quello che permette di capire che spesso, nella vita personale come nella politica internazionale, ci si trova a dover scegliere fra due beni in concorrenza fra loro, e che qualunque sarà la scelta, ciò causerà sofferenze e ingiustizie. «La vera tragedia non è il trionfo del male sul bene, ma la sofferenza causata dal trionfo di un bene su un altro bene». La coscienza della condizione tragica dell’uomo dovrebbe spingere i politici alla «lungimiranza apprensiva» tipica dei realisti, che agiscono non in base a imperativi morali assoluti, ma soppesando le conseguenze di un’azione piuttosto che di un’altra sulla vita concreta delle persone e degli stati.
Questo lo capiscono meglio coloro che hanno fatto in prima persona l’esperienza della guerra: «I giovani veterani dell’Afghanistan e dell’Iraq lo sanno molto meglio dei politici di Washington, che non hanno mai indossato un’uniforme né si sono trovati in un teatro di guerra come giornalisti». Ora però a Washington è arrivata una generazione di politici che la guerra l’ha vissuta in prima persona, ne ha colto l’ambiguità tragica, ha sperimentato direttamente che, come scrive Kaplan, «anche il regime peggiore è meno pericoloso e terrificante dell’assenza di qualunque regime. Un anno di anarchia può essere peggiore di molti anni di tirannide».
Dopo tre anni di guerra in Ucraina
I Vance, i Kaplan, le Gabbard, hanno fatto l’esperienza della «nuda insicurezza fisica» che è mancata a Bush figlio ieri (diversamente da Bush padre) e che manca oggi ai Macron e alla folta schiera degli “armiamoci e partite” di cui abbondano redazioni e salotti televisivi.
L’Ucraina, nell’anniversario del terzo anno di guerra, è un caso macroscopico di situazione che chiama in causa il pensiero tragico: proseguire la guerra come vorrebbero Kiev e i principali governi europei o fermare la guerra come vogliono gli americani sono scelte opposte in vista di benefici che comportano dei costi in termini di sofferenze e di ingiustizie, qualunque delle due cose si scelga. E dalla scelta non si può fuggire! Il realista, che come tutte le persone normali soffre per la perdita di troppe vite umane e che dall’allargamento del conflitto e dalla destabilizzazione della Russia prevede mali peggiori di un parziale cedimento all’aggressore, propende per l’orientamento degli americani piuttosto che per quello degli europei. Soprattutto se ha avuto esperienze di anarchia da guerra civile e di stragi inutili da guerre presentate come giuste.
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