Hoggar, “spaventoso” gigante tatuato:
dentro al vulcano e aggrappati al cielo.
Nel cuore del Sahara addormentato
Il Sahara è un gigante addormentato che, da milioni di anni, giace supino sulla superficie africana: la sua capigliatura sono le foreste equatoriali; i suoi piedi sono le montagne dell’Atlante; la sua pelle è la sabbia dei deserti, le sue vene sono i torrenti, i suoi nei le oasi e, proprio nel centro, a metà distanza fra il fiume Nilo e l’Oceano Atlantico, c’è il suo ombelico: l’Hoggar, un massiccio montuoso di origine vulcanica di 530mila chilometri quadrati.
Le eruzioni, che ebbero inizio 35 milioni di anni fa e continuarono fino al Quaternario, hanno dato un’incredibile varietà di forme a un corollario di catene concentriche, che, da un’altezza massima di oltre 3.000 metri, degradano in picchi, creste, pareti, guglie, coni, funghi e aghi di rocce via via sempre più basse, sino a raggiungere la piatta superficie del deserto.
Lo scenario naturale di questa barriera geografica ubicata nel sudest dell’Algeria, tra Africa Bianca e Africa Nera, oggi Parco Nazionale Culturale, rappresenta uno dei più straordinari musei di Land Art presenti sulla superficie della Terra.
L’ombelico del gigante è tatuato: sulla sua pelle – ovvero in nicchie, grotte e caverne scavate dall’uomo e dall’erosione millenaria – sono stati tracciati grandiosi cicli pittorici da uomini preistorici che hanno documentato con una quantità impressionante di graffiti e incisioni rupestri, la propria presenza qui, quando il deserto non lo era ancora. Attraverso le immagini eseguite dagli stessi protagonisti, è possibile seguire con continuità un arco di migliaia di anni di storia dell’umanità, partendo dai gruppi di nomadi cacciatori alle prese con le prime esperienze di domesticazione animale e vegetale, fino alla sedentarizzazione, alla diffusione del carro a due ruote, all’impiego del cammello e del cavallo, all’uso dell’alfabeto e della scrittura.
Il Parco Nazionale Culturale dell’Hoggar conserva la forma estetica che, attraverso la descrizione dei loro spostamenti e di ciò che costituiva la loro cultura, i popoli sahariani primitivi dettero al proprio immaginario e può essere considerato un museo a cielo aperto che ospita un’esposizione permanente delle prime illustrazioni prodotte dall’uomo a partire da seimila anni fa.
Il vulcano architetto
Quella che il vulcano, attraverso milioni di anni di mutamenti geologici, ha dato alla propria natura eruttiva, è invece una forma primordiale di modellazione architettonica: il massiccio presenta una alternanza di rocce granitiche con rocce basaltiche fuoriuscite da numerosi crateri vulcanici nelle quote più elevate.
In alcune zone i basalti blu hanno coperto, con spessori di centinaia di metri, gli antichi graniti rosa e azzurri, formando multicolori bacini sovrapposti, strapiombi e cascate di minerali, vòlti e archi di cristalli. Sui versanti più ripidi, strati sovrapposti di lava hanno gettato le fondamenta per intere sequenze di colonnati di basalto perfettamente esagonali. I pendii più morbidi si sono rivelati letti ideali per il rotolare millenario e progressivo di migliaia di gocce di lava solidificata divenute ciottoli perfettamente levigati e sferici come biglie di vetro o pietre rotonde stratificate da striature nere elicoidali a forma di trottola che ne testimoniano la rotazione quando erano ancora molle magma incandescente.
I movimenti del sole, della luna e delle stelle, producono continui giochi di luce che cambiano minuto per minuto: trasparenze, ombre, rifrazioni e riflessi culminano in un’apoteosi di effetti visivi durante le ore serali del tramonto, quando l’intero massiccio vulcanico torna a colorarsi di rosso fuoco, per poi, lentamente, spegnersi nel grigioblu delle foschie notturne.
L’Hoggar o Haggar – dall’arabo: “luogo impressionante” o “spaventoso” – fu scelto fin dai tempi più antichi come luogo di culto e di incontro, ed è sempre stato il regno indiscusso dei popoli nomadi Tuareg, i leggendari “uomini blu” e delle loro mitica regina Tin Hinan.
Altissimo, arido, roccioso, privo di vegetazione, il Parco Nazionale dell’Hoggar emerge dal deserto e dal tempo per unire in sé la bellezza delle espressioni artistiche dei suoi abitanti con la magnificenza della forza creatrice della natura. Le memorie del tempo, della natura e dell’uomo qui coincidono nello spazio eterno, sacro e mistico di una impressionante biblioteca scritta su pietra e costruita dentro all’ombelico vulcanico di un gigante addormentato.
Pére de Foucauld i suoi amici Tuareg
Charles de Foucauld era amico dei Tuareg e l’amicizia era ricambiata, non aveva motivi per rivaleggiare in materia di spiritualità e religiosità al punto da essere visto come una minaccia o un profanatore o un dissacratore ed è impossibile che i Tuareg potessero essersi spinti ad assumere atteggiamenti di fanatismo religioso contro colui che rispettavamo come un santo, pur se straniero, cattolico e bianco.
In seguito alla sua tragica morte, la maggior parte del suo lavoro risultò occultato in favore di una visione agiografica della sua vita, mettendo in risalto solo gli aspetti del suo percorso spirituale, del suo ruolo evangelico e del suo compito missionario.
Ma la prima pubblicazione in Francia, avvenuta dieci anni dopo la sua morte, fece ben comprendere il lavoro enciclopedico che aveva compiuto: i due volumi che costituivano il corpus delle Poésies Touarègues comprendevano più di 575 poemi e qualcosa come 5.670 versi.
A partire dal 1907, parallelamente ai suoi approfondimenti scientifici sul lessico, sulla grammatica, sui nomi dei luoghi e delle persone, Pére de Foucauld aveva copiato, trascritto, tradotto, commentato e analizzato il compendio di tutti i poemi e di tutte le poesie recitategli a memoria per giorni e giorni dalle donne Tuareg. Aveva condotto la propria ricerca in maniera speculare traducendo i Vangeli ed estratti della Bibbia in lingua Tamasheq e aveva raccolto informazioni ed elementi tali, in dieci anni di continui approfondimenti, per poter stabilire una veridicità e una corrispondenza diretta tra i miti legati alla Tin Inan dei Tuareg e alla Neit degli Egizi che confluivano nell’idea di una dea madre primordiale creatrice e progenitrice dell’umanità.
L’impianto del monumentale lavoro di studioso svolto dal “marabutto bianco dei Tuareg dell’Hoggar”, come è stato definito, che per tragica fatalità della vita, o per drammatica coincidenza del destino, finì di redigere due soli giorni prima della sua morte, non venne mai più ritrovato o ricomposto nella sua integrità.
Ci si avvicina alla verità tanto più ci si allontana dagli uomini. Più ci si allontana dagli uomini tanto più ci si avvicina a Dio.
Gli eremiti cristiani che fra il III e il IV secolo d.C. popolarono il deserto lo chiamavano paradiso e lo trovavano accogliente e favorevole alla longevità: il grande abate Antonio vi visse fino a 105 anni e sosteneva che “chi vive in solitudine sfugge alle pene di tre guerre: quella di ascoltare, quella di parlare e quella di vedere”; Paolo di Tebe ne visse otto in più in una spelonca vicino a una fonte dove cresceva una palma: acqua e datteri furono la sua dieta ma negli ultimi sessant’anni si cibò del tozzo di pane che un corvo gli portava in dono ogni giorno.
Pére Charles de Foucault si sarebbe potuto considerare l’ultimo discendente di quella tipologia di uomini religiosi che scelsero la vita nel deserto come massima forma di lontananza dagli uomini e vicinanza con Dio.
L’esempio di questi monaci, eremiti ed anacoreti non era solo esemplare in quanto rifiuto delle ricchezze mondane e dell’opulenza del potere temporale della chiesa cattolica con scelte di vita ascetiche, ma anche e soprattutto perchè, essendosi recati nei territori più ricchi di reperti ed elementi culturali di storia precristiana, furono anche in grado di sollevare dubbi e argomentazioni sulle radici stesse del cristianesimo, finendo con l’occupare un ruolo malvisto molto scomodo e critico nei confronti dell’autorità ecclesiastica e papale.
Allo stesso modo anche Pére de Foucauld, affascinato da quel misto di paganesimo astrale e cristianesimo primitivo che costiuisce l’essenza culturale dei popoli Tuareg, risultò oltremodo inviso a molti: era convinto che il processo di evangelizzazione potesse attuarsi solo attraverso il rispetto e la comprensione delle altre culture; aveva deplorato apertamente la conoscenza superficiale e la mancanza di rispetto sia da parte dei missionari che da parte dell’amministrazione coloniale; aveva condannato gli eccessi di violenza repressiva operati con le armi dalle forze militari francesi.
Chi ha ucciso l’ultimo degli eremiti del deserto?
Anche tutto ciò che è possibile apprendere sulla sua fine (1 dicembre 1916) riconduce ad un dato oltremodo scomodo, dal momento che la spedizione mossa contro di lui allo scopo di sequestrarlo, finita in tragedia, venne in realtà organizzata dai partigiani indipendentisti libici vittime di eccessi di violenza repressiva inaudita, operati, con armi proibite, gas nervini e dai primi bombardamenti aerei mai effettuati nella storia dell’aeronautica mondiale, dalle forze militari coloniali italiane contro le popolazioni libiche della Cirenaica e del Fezzan.
I primi ad accorrere sul luogo della razzia e del delitto, dopo la fuga precipitosa degli assalitori e dell’esecutore materiale di quell’assassinio, furono i componenti delle famiglie Tuareg per le quali la residenza fortificata di mattoni e fango era stata costruita a scopo difensivo: all’esterno giaceva il corpo di Pére de Foucault, colpito a morte da un colpo di fucile sparatogli a bruciapelo all’altezza delle tempie; all’interno del fortino mancava tutto quel poco che poteva essere razziato dalla furia – qualche arma, munizioni, provviste, utensili, oggetti personali – ma sparsa ovunque, gettata o strappata, rimaneva abbandonata a terra una scia di fogli di carta di appunti scritti a mano riproducenti lettere, simboli, schizzi, disegni, graffiti, geroglifici, mappe, nomi di luoghi. Luoghi della memoria Tuareg Kel Haggar e luoghi della memoria del loro amato “padre bianco” Charles de Foucauld.
Chi trovò il coraggio di entrare dentro a quella casa di fango come si entra in una tomba profanata, raccolse i fogli dello sciame di scritture che componevano l’enciclopedia delle conoscenze delle genti che parlavano e cantavano un dialetto berbero… che vivevano come famiglie di pastori nomadi in un habitat sconfinato che dai crateri e dalle cime dell’Atakor, il cuore del vulcano, degrada sgretolandosi fino al nulla di oceani dominati da dune di sabbia e vento…
In molti, tranne i Tuareg, avrebbero potuto ritenere scomodo il lavoro di Pére de Foucauld, ma nei suoi confronti il ruolo mantenuto dalle genti Tuareg, oltre a quello di ispiratore, è stato anche quello di protettore e conservatore dei suoi scritti, provenienti dal luogo del delitto, dalle mani di coloro che sopraggiunsero per primi subito dopo i fatti e che da allora si resero conto di essere i depositari delle conclusioni a cui giunsero i suoi studi.
Due Vie Lattee aperte a conchiglia
Si fatica a muovere ogni singolo passo sotto il sole cocente, è tanta la luce che si fatica a tenere aperti gli occhi, ma quando nel deserto le fasi lunari illuminano le notti a giorno e si decide di viaggiare animali e uomini fianco a fianco, lo sforzo è minore, il passo sostenuto, lo sguardo si alza e alla vista appare lo specchio del cielo riflesso sulla terra: due vie lattee aperte a conchiglia una sopra l’altra.
Se di notte decidi di rivolgere lo sguardo fisso al cielo, la luce, l’immensità e la vicinanza della Via Lattea ti creerà un’impressione di vertigine.
Se ti corichi a terra e la osservi, la sensazione non è di sentirti sdraiato, ma aggrappato con la schiena di fronte all’incombere di un baratro infinito di stelle, pianeti, costellazioni e nebulose che occupano tutto il campo visivo.
Ma è l’alba il vero traguardo da raggiungere quando il chiarore dell’aurora si riflette sulle superfici calcinate e diviene abbagliante e non si può non rimanere estasiati dalla visione di paesaggi da genesi primordiale che appaiono dal bianco assoluto come incantesimi di chimere che svaniscono.
Dal sole bisogna difendersi o ripararsi, dalla luna no. Non solo: nel deserto quella del sole non è l’unica luce: la luna è il sole argenteo delle notti. Blu, azzurro, turchese e indaco sono i colori di noi “Uomini Blu”, gradazioni notturne rifratte o emesse dalla luna, dalle stelle e dal cristallo contenuto in ogni granello di sabbia da calpestare scivolandoci sopra o da soffermarsi a leggerlo e studiarlo come si studia e si legge un punto su una mappa celeste.
Il deserto è il luogo terrestre più lontano dal mondo e più vicino al cielo, allo spazio. Luogo del pre e luogo del post. E’ per questo che è mistico e sacro: Punto di non ritorno di un orgasmo cosmico.
Cover: Il Massiccio dell’Hoggar nel deserto del Sahara in Algeria – immagine Wikimedia Commons
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Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.
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