Armi, altro che Europa unita: spesso compra americano

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L’Europa “lasciata sola” da Donald Trump, esortata dal presidente degli Stati Uniti a farsi maggiore carico della propria sicurezza e a spendere di più per la difesa, sebbene esclusa dai tavoli negoziali sul futuro dell’Ucraina promette di proseguire anche da sola nel sostegno a Kiev. Ma con quali mezzi? Nell’intervista alla RSI di pochi giorni fa, il generale italiano Vincenzo Camporini, spiegando che solo in un futuro ancora piuttosto lontano si potrà immaginare un esercito europeo “con la stessa uniforme e il medesimo iter di reclutamento e addestramento”, identificava due ostacoli anche per una soluzione operativamente più semplice e politicamente meno impegnativa, quella di un coordinamento delle forze nazionali europee sul modello della NATO.

Da un lato definire “a monte chi comanda” – e qui già le divisioni nel Vecchio continente emergono evidenti – dall’altro però anche “la frammentazione dell’industria europea, che porta a una proliferazione di sistemi il cui sostentamento logistico ed operativo è enormemente costoso”. Una proliferazione che l’Ucraina ha già sperimentato sulla propria pelle, venendo rifornita durante il conflitto ancora in corso con una grande varietà di sistemi di artiglieria e di difesa antiaerea, per non citare che un paio di esempi, con conseguenti difficoltà nelle catene logistiche e di approvvigionamento (proiettili non sempre compatibili malgrado il calibro comune da 155 mm, pezzi di ricambio diversi).

Non è che i gruppi industriali europei della difesa non collaborino fra loro, ma tendono a farlo bilateralmente, su progetti specifici e spesso concorrenti fra loro. Prodotti che non di rado, poi, faticano a trovare sbocchi di mercato altrove in Europa, e se vengono esportati lo sono perlopiù in Paesi extraeuropei (asiatici e mediorientali in primis). L’Europa, scriveva Mario Draghi in un rapporto pubblicato nel settembre dello scorso anno, produce attraverso un numero significativo di operatori, talvolta di taglia medio-piccola, in quantitativi quindi ridotti e senza poter beneficiare di economie di scala.

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Queste imprese investono inoltre molto poco in ricerca e sviluppo, un decimo di quanto si spende oltre Atlantico secondo i dati rispettivamente di 2022 e 2023 (10,7 miliardi di euro contro 140 miliardi di dollari). Il risultato? Come evidenziava l’ex premier italiano, per far fronte ai propri bisogni, invece di unire le forze l’Europa compra “troppo equipaggiamento fuori dai propri confini, in particolare negli Stati Uniti”. “Abbiamo grandi risorse e potere di spesa, ma le diluiamo fra una moltitudine di strumenti”, aveva scritto l’ex presidente della BCE. Non si tratta insomma solo di spendere il 2% del PIL come la NATO chiede ai suoi membri sin dal 2014, ma anche di come e dove questa somma viene investita.

L’uniformità o meglio interoperabilità europea, se mai, sembra allo stato attuale delle cose molto più raggiungibile su sistemi d’arma statunitensi che su quelli prodotti nel Vecchio continente. Per la felicità di Trump che chiedendo agli alleati di spendere addirittura un “impossibile” 5% del PIL in armamenti ha un’idea ben precisa in testa: favorire l’industria statunitense che in questo ambito la fa da padrona, soprattutto in Occidente. Si prenda l’esempio dei caccia: in Europa ci sono il Gripen svedese, usato fuori dal Paese scandinavo solo da ungheresi, brasiliani e sudafricani, il Rafale che la Francia ha saputo vendere solo a Grecia, Croazia e Serbia (oltre ad Egitto, Qatar, India, Indonesia ed Emirati Arabi), e l’Eurofighter Typhoon figlio della collaborazione fra Leonardo, BAE Systems ed Airbus. Ne circolano quasi 600 esemplari, ma concentrati nelle forze aeree dei quattro Paesi promotori: Italia, Regno Unito, Germania e Spagna. Questi tre velivoli erano in corsa (il Gripen scartato già in una prima fase) anche per la scelta del prossimo aereo da combattimento dell’aviazione svizzera.

Come noto, però, Berna ha scelto l’F-35 statunitense e non solo lei. Ci viene in aiuto il database del SIPRI, il Centro di ricerche sulla pace di Stoccolma che elenca le vendite di armamenti nel mondo, il quale ha registrato decine di ordini di questo modello negli ultimi anni, tanto che in Europa entro una decina di anni dovrebbero essercene in circolazione circa 600 in non meno di 13 Paesi diversi (in aggiunta o in sostituzione dei già numerosi F/A-18 e soprattutto F-16).

Si potrebbe proseguire con altri esempi, pochi dei quali “virtuosi”. Ne basti ancora uno, la difesa contraerea: il sistema tedesco IRIS-T si ritrova o ritroverà anche in Spagna, Norvegia, Austria, Slovenia, Estonia e Lettonia, ma lo statunitense Patriot nelle sue successive versioni è già stato ordinato dalla stessa Spagna, dalla Polonia, dalla Svezia, dalla Romania, dai Paesi Bassi, dalla Grecia, dalla Svizzera e persino dalla stessa Germania, oltre che da una serie di Paesi extraeuropei. Entrambi, oltre al SAMP/T di cui diremo, sono stati donati anche alle forze ucraine. In questo ambito, nel 2022 Berlino si era fatta promotrice dell’iniziativa chiamata European Sky Shield (ESSI), volta a proteggere i cieli europei, che prevede acquisti in comune dei sistemi difensivi e quindi una coordinazione anche logistica e di istruzione. Vi ha aderito subito una quindicina di membri europei della NATO e il 10 aprile anche il Consiglio federale ha approvato la dichiarazione di adesione della Confederazione. Con Albania e Portogallo, ultimi arrivati, ora i Paesi hanno superato la ventina.

Un esempio riuscito di collaborazione europea? Se non fosse che Spagna, Francia e Italia sono rimaste fin qui in disparte, le ultime due lamentando in particolare la mancata presa in considerazione del SAMP/T di loro produzione (e di scarso successo commerciale internazionale). Nelle intenzioni il progetto si baserà infatti sulle armi tedesche Skyranger (un cannone di contraerea) e IRIS-T per il breve e il medio raggio, sul Patriot statunitense per le intercettazioni a lungo raggio e sull’israeliano Arrow 3 (una coproduzione con gli Stati Uniti) per il lunghissimo raggio.

L’ESSI, contesta quindi Parigi, fa troppo affidamento su equipaggiamenti extraeuropei ma sottotraccia sono evidenti le rivalità campanilistiche: se Emmanuel Macron è colui che più preme per il “compra europeo” (anche nella pratica, come si può vedere nel grafico sotto) è anche perché questo “europeo” sarebbe spesso e volentieri francese. I grandi Paesi europei, in altre parole, sono determinati a difendere la propria industria degli armamenti e questo va a scapito della indispensabile coordinazione. Allo stesso tempo, soprattutto a est la maggiore percezione della Russia come minaccia spinge ad attribuire maggiore importanza alla NATO e agli Stati Uniti. L’esempio più eclatante è quello della Polonia, potenza militare crescente e lanciata a diventare il primo esercito europeo (a parte quello di Mosca) comprando quasi solo americano (e ultimamente coreano), ma anche Paesi Bassi o Svezia, per esempio, si affidano quasi esclusivamente al “made in USA”.

Ma torniamo al rapporto di Draghi prima di tirare le fila del discorso, perché nei grandi numeri si vedono gli effetti di quanto descritto sopra. Il documento sottolineava come fra la metà del 2022 e la metà del 2023, periodo che sostanzialmente equivale all’immediata reazione allo scoppio della guerra in Ucraina, il 63% delle comande europee di armi era andato oltre Atlantico e un altro 15% a fornitori di altri Stati extraeuropei. Solo un quinto, quindi, era rimasto dentro i confini dell’UE.

Il tutto su una spesa complessiva dei Ventisette di 313 miliardi di dollari, un terzo di quella statunitense e di poco superiore a quanto investito dalla Cina da sola. Dei 32 Paesi della NATO, 9 non sono arrivati nel 2022 a spendere il 2% del loro PIL per la difesa e fra questi 7 sono membri dell’UE, comprese Spagna e Italia.

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Il bilancio stilato dal già citato SIPRI nel marzo del 2024, con i dati dell’anno precedente, evidenziava come il nuovo trend del riarmo innescato dal conflitto ucraino (oltre che dalle tensioni fra Pechino e i suoi vicini) avesse beneficiato all’industria statunitense, con una quota globale calcolata su un quinquennio che era passata dal 34 al 42% del mercato globale. Per la sola Europa il confronto fra il periodo 2018-2022 e quello 2019-2023 vedeva un balzo del 94% (“dopato” dalle forniture a Kiev, ma non solo) e una parte statunitense passata dal 35 al 55% in termini di valore.



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