Il bullismo di cui è vittima il Presidente della Repubblica serve a spostare l’attenzione dai contenuti più dirompenti del suo discorso marsigliese e, ammesso che i “bulli” siano russi, sono convinto che se la ridano, dandosi di gomito, i trumpiani di tutto il globo terraqueo. E non soltanto.
Credo che siano ben contenti di questa strumentale bastonatura anche i pavidi leader europei che cercano oggi, a tempo scaduto, di montarsi sul volto una maschera da duri contro il “brutalismo” (cit. Luciano Violante oggi sul Corriere) trumpiano, rincorrendo in verità ben più modesti obiettivi che nulla hanno a che fare con l’urgenza espressa da Mattarella nel suo intervento.
A questi “leader” (?) continuano a mancare parole che sappiano di futuro e, come nelle peggiori prove date dai democratici, inseguono ancora una volta i neri sul loro terreno, ben sapendo che alla fine verranno sempre preferiti gli originali alle copie. Quale terreno? Quello delle armi e della guerra come paradigma dell’ordine. Al massimo ci si divide sull’invio o meno di truppe, ma tutti già d’accordo sull’aumento di spese militari. Punto. Non stanno cercando di fare “altro”, stanno soltanto mandando un messaggio al grande boss: guarda che abbiamo capito, scusaci, facci sapere quanto fa che paghiamo!
Capisco la faccia tetra di Meloni che in questo schema si è vista superare da Macron che appunto convoca il summit a Parigi, ma prima telefona a Trump. Anche Giorgia infatti, come tutti noi, deve ricordare dai banchi delle medie la lezione sull’organizzazione medioevale che non prevedeva semplicemente dei “vassalli”, ma “valvassori” e persino “valvassini”: insomma, pure tra chi ubbidisce c’è una certa gerarchia.
Le parole del presidente Mattarella sono dirompenti intanto per la chiara denuncia della torsione illiberale del potere americano. Come altrimenti interpretare parole come “Figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni”? Coglie perfettamente la sfida del nostro tempo che non è tanto la fine della democrazia, ma più profondamente la fine della res publica, intesa come dimensione/esperienza sottratta alla mera sommatoria delle proprietà private.
Le parole del presidente poi sono dirompenti se lette guardando alla cupa foto di gruppo parigina dei leader attovagliati tra stucchi, specchi, ori e gendarmi impettiti. Cito: “L’Europa intende essere oggetto della disputa internazionale (…) o invece (intende) divenire soggetto di politica internazionale, nell’affermazione dei valori della propria civiltà? Può accettare di essere schiacciata tra oligarchie e autocrazie? Con al massimo la prospettiva di un ‘vassallaggio felice’? Bisogna scegliere: essere ‘protetti’ o essere ‘protagonisti’? L’Europa appare davanti ad un bivio, divisa come è, tra Stati più piccoli e Stati che non hanno ancora compreso di essere piccoli anch’essi” (il che, detto in Francia, dà la misura dello statista).
Le parole di Mattarella non si fermano a questo, ma affondano come lama nel burro della inadeguatezza della attuale politica europea: “Le attuali istituzioni non bastano tuttavia (…) Servono idee nuove e non l’applicazione di vecchi modelli a nuovi interessi di pochi”. E qui arriviamo al punto – per me si intende, non mi permetto di fare l’interprete del pensiero inespresso del Presidente. Il punto che rappresenta a mio modo di vedere da anni ormai il discrimine tra un discorso politico inadeguato, da sonnambuli-vassalli, e un discorso politico capace di fare di questo presente agonizzante un futuro diverso: trasformare l’Unione Europea nella Repubblica federale d’Europa.
Settantacinque anni dopo il fallimento del Piano Pleven sulla difesa comune europea, vent’anni dopo il fallimento della Convenzione che avrebbe portato alla nascita degli Stati Uniti d’Europa, nessuno può pensare che basti decidere di portare al 2 o al 5% la spesa militare per salvare l’Europa dall’onda nera che vuole farla finita non tanto con la guerra in Ucraina, ma con la libertà della persona, il pluralismo, la tolleranza, l’uguaglianza davanti alla legge. L’onda nera che sogna il mondo di Breivik, lo stragista di Utoya.
L’esito della battaglia non è per nulla scontato, anzi! La “favola”, per citare ancora il formidabile discorso, dei “regimi dispotici ed illiberali (che sarebbero) più efficaci nella tutela degli interessi nazionali” intanto è solita implodere a causa del male mortale che segna la loro genetica irrimediabilmente: la corruzione. Autoritarismo e corruzione sono sempre due facce della stessa medaglia. Ma ci vogliono una stampa libera e una magistratura indipendente per appenderla in bella vista. In alternativa serve una rivoluzione, quella “liberale” di cui scriveva Piero Gobetti giusto cento anni fa.
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