REGGIO CALABRIA Le «fibrillazioni» all’interno della ‘ndrangheta reggina e il ruolo apicale di Carmine De Stefano. I contrasti con Luigi Molinetti e i malumori causati dalla distribuzione del provento delle estorsioni. I rapporti tra le varie articolazioni di ‘ndrangheta a Reggio Calabria vengono analizzati dettagliatamente nelle motivazioni della sentenza del processo “Epicentro” che si è celebrato a Reggio Calabria in appello. Sono state 44 le condanne, con pene da quattro anni a ventuno anni di reclusione, (undici assoluzioni e un non “doversi procedere”), a carico di esponenti e gregari delle più potenti cosche reggine. Il processo è scaturito da tre distinte indagini della Procura distrettuale antimafia che avevano messo in luce l’egemonia criminale della cosca “De Stefano”, attorno a cui ruotavano le ‘ndrine Tegano, Molinetti, Libri, Condello, Barreca, Rugolino, Ficara, Latella, Zito e Bertuca.
L’egemonia delle “quattro famiglie” reggine
I De Stefano, i Tegano, i Condello e i Libri, le “quattro famiglie” tra le quali avviene la spartizione dei proventi delle estorsioni imposte a commercianti e imprenditori del centro storico di Reggio Calabria. Il processo, che nasce dalle tre inchieste “Malefix”, “Metameria” e “Nuovo corso”, ha messo in luce la struttura associativa, frutto della federazione tra ‘ndrine, provata, – come sostenuto dalla Procura -, «da una serie di inequivocabili elementi dimostrativi da ultimo acquisiti nell’ambito delle indagini confluite nel presente procedimento». Procedimento che «ha definitivamente confermato – nell’ottica dell’ormai riconosciuta vocazione unitaria della ‘ndrangheta – l’esistenza di una federazione tra le storiche famiglie mafiose reggine, operanti in stringente connessione operativa tra loro e, comunque, tutte subordinate al predominio catalizzante del gruppo di Archi, facente capo da ultimo al boss Carmine De Stefano».
In appello i giudici si rifanno alle motivazioni della sentenza emessa in primo grado, per sottolineare come il sodalizio si sia «perpetuato nel corso degli anni senza soluzione di continuità, mutando soggetti, mezzi e struttura, ma mantenendo intatti forza e potere criminali. Il gruppo De Stefano-Tegano (alleato durante la cruenta “guerra di mafia”, combattuta tra il 1985 ed il 1991, contro lo schieramento che faceva capo ai Condello) costituisce un caso paradigmatico del “modello mafioso”, divenendo altissimo il livello dei mezzi utilizzati e delle finalità perseguite di controllo dì ogni attività economica, istituzionale e sociale nel territorio calabrese».
Il ruolo apicale di Carmine De Stefano e le fibrillazioni tra i clan
Spicca in particolare la figura di Carmine De Stefano, condannato a 20 anni di reclusione. «Dopo la scarcerazione avvenuta nel maggio 2017, – scrivono i giudici nelle motivazioni – aveva ripreso il ruolo verticistico all’interno della propria famiglia già riconosciutogli nel processo Olimpia. Ruolo che tutti i soggetti variamente intercettati nell’ambito del presente procedimento gli riconoscevano senza riserve». Una «posizione di vertice» per De Stefano «individuato da tutti come il soggetto con il quale occorreva parlare per risolvere i problemi insorti, dei quali egli stesso era stato causa». E secondo i giudici, De Stefano, una volta uscito dal carcere, non solo ha ripreso le redini della propria famiglia ma «ha provocato, con le sue pretese, serie fibrillazioni all’interno della ‘ndrangheta operante nel territorio reggino. Ha suscitato malumori nei Libri e nella famiglia Molinetti con riferimento alla distribuzione del provento delle estorsioni. Ha in qualche modo turbato le aspirazioni di Luigi Molinetti sul territorio di Gallico».
«Il dato – scrivono ancora i giudici – è in linea con quanto emerge dalla conversazione del 30 gennaio 2018 in cui Antonio Libri dice esplicitamente di avere appreso da Domenico Tegano che da sei mesi, cioè, approssimativamente, da quando Carmine De Stefano era stato scarcerato, le cose erano cambiate (“Mi ha detto Mico: «Da sei mesi a questa parte le cose sono cambiate»)». In un’altra conversazione si apprende che “Carmine” (De Stefano ndr) e “Gino” (molinetti ndr) avevano litigato “per i fatti di Gallico”. E ancora: una lunga conversazione tra Luigi (“Gino”) Molinetti, e i figli contiene inequivoci riferimenti a Carmine De Stefano, soprannominato “occhialino”, e conferma che «in quel contesto temporale i Molinetti erano in contrasto con i De Stefano». (m.ripolo@corrierecal.it)
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