Arte/natura, l’aiuto reciproco nella fragilità, con Kropotkin

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«Non è l’amore che spinge un branco di cavalli a formare un cerchio per resistere a un attacco di lupi; né è l’amore che spinge i lupi a mettersi in branco per cacciare, o una dozzina di specie di uccelli a vivere insieme, in autunno. È un sentimento infinitamente più largo dell’amore o della simpatia personale, un istinto che s’è a poco a poco sviluppato fra gli animali e fra gli uomini nel corso di un’evoluzione estremamente lenta, e che ha insegnato agli animali, come agli uomini, la forza che possono trovare nella pratica dell’aiuto reciproco e del mutuo appoggio». Il principio ispiratore di Mutual Aid. Arte in collaborazione con la natura, al Castello di Rivoli fino al 23 marzo, si trova nella raccolta di saggi di Pëtr Kropotkin Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione – pubblicata a Londra nel 1902 e tradotta in italiano nel 1950 nella Collezione del pensiero classico dell’anarchismo.

Nel proporre una scelta di opere che nascono dall’interazione di artiste e artisti con agenti non umani, il progetto espositivo curato da Francesco Manacorda e Marianna Vecellio si rifà, attualizzandola, all’idea di Kropotkin, naturalista e pensatore libertario e anarchico. La pratica del «mutuo appoggio», in cui Kropotkin individuava, in parziale opposizione a Darwin e richiamandosi al pensiero di Goethe, il fondamento sia dei processi evolutivi, sia dell’etica e della sociabilità, ci invita oggi, scrivono i curatori, «a riformulare il nostro rapporto con il non umano e a prenderci cura della fragile interdipendenza che ci lega a esso».

Il percorso della mostra si snoda tra le alte pareti della Manica Lunga del Castello, disegnando un sentiero dalle molte svolte e dalle prospettive inattese, che ci porta a costeggiare argini e insenature, a incontrare stazioni di sosta, a osservare schermi, teche ed edicole, per concludersi nell’esperienza immersiva e perturbante di the sun eats her children, il frammento di natura tropicale allestito da Precious Okoyomon: terra vulcanica, farfalle, piante velenose e, seminascosto tra gli elementi naturali, un orso – corpo in resina e manto sintetico – soggetto a controllo elettronico, il cui respiro sonoro aggiorna le inquietudini suscitate dall’apparire di un simulacro.

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La geografia della mostra si estende dalla foresta pluviale del Guatemala, dove da decenni Vivian Suter dipinge tele che lascia esposte agli agenti atmosferici, per poi collocarle negli spazi espositivi in un ordine che replica l’intrico degli elementi vegetali tra i quali sono state realizzate, alla Grande barriera corallina del Queensland, del cui processo di sbiancamento Nicholas Mangan raccoglie tracce e relitti nel progetto Core-Coralations (Death Assemblages), e ancora sino a Ylojarvi, in Finlandia, dove Agnes Denes ha avviato nel 1992 la realizzazione di Tree Mountain – A Living Time Capsule11,000 Trees, 11,000 People, 400 Years, una collina artificiale su cui sono stati piantati undicimila alberi, in base a un complesso schema geometrico la cui compiuta fisionomia sarà leggibile, nelle intenzioni dell’artista, solo allo scadere di quattro secoli.

Tra il 2010 e il 2011 Andrea Caretto e Raffaella Spagna hanno esplorato il corso del Rodano tra Lione e Valence, analizzando le conseguenze morfologiche della canalizzazione del fiume. Il cambiamento del paesaggio non coinvolge solo il tracciato delle acque, ma ogni singolo elemento che contribuisce a comporlo: la corrente leviga e arrotonda, come i sassi, anche i frammenti di materiali sintetici che porta con sé, prestando loro la grana, il colore, la forma di ciottoli e contribuendo a costituire un greto del fiume dalla naturalità fittizia, riproposta in mostra nell’assemblaggio Être galet.

Già nel 1971 Robert Smithson, durante un sopralluogo all’arcipelago corallino di Florida Keys, aveva dedicato la serie fotografica Overgrown Structure a un giardino interamente coperto da reti protettive, che col tempo si erano intrecciate ai rami degli alberi formando una nuova entità in cui si univano il rigoglio tropicale degli elementi botanici e l’entropia del progressivo smagliarsi del manufatto industriale.
Il tema dell’antropizzazione dell’ambiente naturale si incrocia in mostra con quello del dialogo interspecie, interpretato con toni e su scale diversi.

Michel Blazy, che nel 2007 usò gli spazi del Palais de Tokyo come teatro per il proliferare e il corrompersi di opere costituite da materiali organici, tra le quali si aggiravano animali vivi, ha continuato da allora ad affidare a elementi non umani la realizzazione dei suoi lavori – nel caso de Le lâcher d’escargots alle lumache, che hanno deposto sulla superficie di un tappeto monocromo la trama segnica prodotta dalle tracce traslucide dei loro percorsi.

Hubert Duprat, Larva di tricottero con il suo astuccio, 1980-’94

Hubert Duprat opera come un orafo, fornendo a larve di tricotteri scaglie d’oro, minuscole perle, frammenti di turchese o zaffiro con cui gli insetti, sviluppandosi, producono astucci protettivi intarsiati di pietre preziose.

Se dalla fine degli anni sessanta Giuseppe Penone modifica la crescita degli alberi inscrivendovi l’impronta dei suoi gesti, all’inverso la giapponese Aki Inomata si rifà, per fondare la sua indagine sui limiti e sul senso della pratica della scultura (How to Carve a Sculpture), all’azione dei castori, replicando in scala umana le forme dei tronchi da loro intagliati.

Tomás Saraceno coltiva fin dall’adolescenza una aracnofilia che lo ha portato a raccogliere, catalogare, mappare ed esporre ragnatele e a creare un network di ricerca che collega biologi, architetti e ingegneri, scoprendo infine la pratica di lettura del futuro basata sui poteri divinatori attribuiti ai ragni in alcune comunità camerunensi. Qualche tempo dopo essersi addentrato tra le maglie e i nodi della dendritica installazione di Saraceno alla Biennale di Venezia del 2009, in Life among conceptual characters Bruno Latour ha sentito il bisogno di precisare in termini nuovi la sua definizione del «medium» della filosofia, rifacendosi al modello funzionale della ragnatela nel descrivece il pensare filosofico come «una modalità specifica di collegare gli argomenti, atta a evitare il maggior numero possibile di non sequitur».

Mutual Aid è una mostra impura («I want to sin against purity / Voglio commettere peccato contro la purezza», recita un verso di Precious Okoyomon), percorsa dall’alternarsi di metodo e ossessioni, in cui il riferimento allo spirito utopico del principe anarchico Kropotkin ha autorizzato i curatori a svincolarsi da riferimenti disciplinari coercitivi. «Che cosa è un museo indeterminativo?», si sono chiesti Manacorda e Vecellio presentando Mutual Aid alla vigilia del quarantennale dell’apertura del Castello di Rivoli e dell’inaugurazione del suo rinnovato allestimento – 19 dicembre 1984/2024 –, che Manacorda ha progettato con Marcella Beccaria. «È un museo che permette all’artista di esprimersi senza che l’istituzione controlli i suoi enunciati completamente, … aperto alla possibilità che progetti, conoscenza e significati siano ‘completati da altri’».

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Sembra seguire questa direzione la duplice presenza di Maria Thereza Alves in Mutual Aid, con i recenti acquerelli della serie Council of Beings, dedicati a specie a rischio di estinzione, e in Ouverture 2024, con Una proposta di sincretismo (questa volta senza genocidio), raffigurazione su piastrelle di ceramica dipinta di un giardino le cui specie vegetali illustrano le connessioni tra la flora mediterranea e quella dell’America latina e il loro speculare diramarsi.



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