Addio fact checking? Ingenuo indignarsi per la decisione di Meta

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di Luciano Sesta*

Addio fact-checking. Per decisione di Mark Zuckerberg, d’ora in poi, all’interno di Meta, non ci sarà più chi, in nome della “verità dei fatti” e della lotta alle fake news, avrà il potere di rimuovere idee e opinioni o di impedirne la pubblicazione. Una decisione, quella di Zuckerberg, che Joe Biden, presidente americano uscente, ha definito “vergognosa”.

Forse non tutti ne sono a conoscenza, ma la dichiarazione di Biden chiude una parabola iniziata qualche anno fa proprio a ridosso della prima elezione di Trump, quando l’espressione “fake news”, prima mai usata, comincia a diffondersi su iniziativa degli ambienti liberal della sinistra americana. Il concetto di “bufala”, storicamente, nasce decisamente schierato a sinistra, più precisamente dal bisogno di conservare il monopolio dell’informazione da parte dei media contrari all’elezione del tycoon. Che tale concetto sia stato poi usato anche dai conservatori e dalle destre non è che una conferma del suo carattere sin dall’inizio strumentalmente politico: la preoccupazione per il diffondersi di false notizie, in altri termini, non è nata in un ambiente neutro o da un sincero amore per la verità, ma dentro un aspro conflitto fra parti, ciascuna delle quali fortemente interessata a dare del bugiardo al proprio avversario ideologico o al proprio nemico politico.

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Se le cose stanno così, appellarsi alla necessità del fact-checking – come in tanti stanno facendo oggi anche in Italia – è un’operazione piuttosto ingenua, perché dimentica che la verità stessa, che dovrebbe essere un semplice rispecchiamento oggettivo dei fatti, può diventare il più sottile strumento retorico della lotta politica. A ben vedere, infatti, solo se c’è una verità – che guarda caso coincide con la nostra opinione – potremo dare efficacemente del bugiardo al nostro nemico politico o al nostro avversario ideologico. E poiché gridare alla menzogna altrui è retoricamente più efficace che inneggiare alla propria verità, l’insistenza sul pericolo rappresentato dalle fake news nasce non già dal desiderio di capire come stanno realmente le cose, ma da un interesse ad avere ragione. Chiamando “verità” quella di cui siamo convinti noi e “menzogna” ciò di cui sono convinti gli altri, daremo man forte al nostro punto di vista. Perché non c’è modo migliore di affermare la propria verità che dare del bugiardo al prossimo.

Lungi dall’essere un’arma di protesta contro il potere, la verità è qui un mero strumento di cui il potere stesso si serve per legittimare operazioni che diversamente non sarebbero mai accettate, come il controllo dell’informazione, la censura e la propaganda di un pensiero unico. Lo avevano insegnato proprio i maestri della sinistra liberal e woke, Michel Foucault e Richard Rorty, secondo i quali appellarsi alla verità dei fatti non è che una forma di esercizio dell’autorità politica, perché ha la funzione retorica di rinforzare l’opinione di turno, facendola trionfare sulle opinioni rivali, squalificate come “fake”. La “verità” diventa così la prima “menzogna” (Nietzsche). E non è forse un caso che, durante il regime di Stalin, il giornale sovietico fabbricatore seriale di menzogne si chiamasse proprio Pravda, “verità”.

Il proliferare, sul web, di agenzie di fact-checking e di debunking, ossia di smascheratori professionali di fake news, è da questo punto di vista un fenomeno culturale paradossale per il fronte democratico americano. Tramite queste agenzie, infatti, la sinistra liberal riscopre l’esistenza della verità dopo aver per anni sposato il relativismo postmoderno, secondo cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” (Nietzsche). L’attività di fact-checking è ciò che, in una cultura ormai post-moderna, rimane dell’illuminismo, ossia l’ambizione di incarnare il punto di vista della ragione umana, il suo potere di semplice e neutrale rispecchiamento dei “fatti”, al di là di ogni pregiudizio o interesse politico di parte. E se prima a diffondere la luce erano le istituzioni religiose, ora sono le istituzioni scientifiche a farlo, e con lo stesso pathos missionario con cui lo facevano le chiese.

Nato per la valutazione delle notizie sospette e per la lotta alle fake news, l’International Fact-Checking Network, di cui proprio Meta si è servito, non è molto diverso da un orwelliano “ministero della Verità”. Basti pensare che è stata proprio questa istituzione a portare alla sospensione mensile di utenti Meta che, durante la pandemia, pubblicavano articoli scientifici sui rischi di trombosi associati al vaccino AstraZeneca. Rischi ora riconosciuti, e che hanno portato al ritiro di quel vaccino dal mercato mondiale.

E dunque? Forse aveva ragione il vecchio John Stuart Mill, quando faceva notare che il modo migliore di smascherare una falsa notizia è lasciarla circolare liberamente. In caso contrario, infatti, la sua falsità non potrebbe mai venire alla luce né il suo autore venir sbugiardato. Con gravi danni per la verità stessa, privata della possibilità di risaltare per contrasto rispetto all’errore, e con imprevisto giovamento per l’errore, rivestito del nobile aspetto della verità “messa a tacere”. Perché ogni censura, lo si sa, ha sempre l’effetto, controproducente, di suscitare il sospetto che la notizia dichiarata falsa sia dichiarata tale proprio perché vera, e, dunque, troppo pericolosa per circolare indisturbata nello spazio pubblico. E dunque? In una democrazia liberale il fact-checking dovrebbe farlo ogni utente, senza la guida, sospetta, di un’agenzia del vero e del falso. Non bisogna avere necessariamente letto Kant, Nietzsche e Foucault per capirlo. Basta il buon senso. Di cui i commentatori indignati della decisione di Zuckerberg, forse, difettano. Anche se hanno letto Kant, Nietzsche e Foucault.

*Docente di Filosofia Morale, Università di Palermo



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