I bravi giovani studiosi come priorità del dopo Pnrr. Idee per le università

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In 10 anni l’Italia ha regalato all’estero centinaia di migliaia di laureati. Serve prevedere da subito borse post doc per i migliori neodottori di ricerca in modo da permettergli di portare avanti un loro progetto personale in condizioni favorevoli sotto il profilo economico e normativo. Proposte per la prossima finanziaria


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Nel dibattito aperto intorno all’università e al tema dei giovani ricercatori, tre sono gli elementi intorno a cui si discute: a) come dare una prospettiva ai tanti dottori di ricerca e ai ricercatori a tempo determinato che grazie al Pnrr sono stati reclutati in questi ultimi anni; b) come evitare una situazione di incertezza che le polemiche intorno al disegno di legge del governo sul pre-ruolo non aiutano a dirimere; c) come aprire delle opportunità ai dottori e ai dottorandi di ricerca di qualità affinché l’investimento effettuato con il Pnrr non vada a beneficio di paesi più attrattivi.

Prima di entrare nel merito dei punti sollevati e formulare una proposta, è importante sottolineare che non si tratta di un discorso interno alla corporazione accademica ma di un tema cruciale per la competitività del sistema paese nel nuovo mondo in cui siamo ormai entrati. L’Italia è un grande esportatore netto di talenti, forse il primo tra i paesi avanzati, con un trend in crescita dal 2013. La differenza tra uscite ed entrate ogni anno per laureati di età compresa tra i 25 e i 39 anni è stata, da allora, sempre superiore alle 10.000 unità. In 10 anni abbiamo regalato ad altri una città di 100 mila abitanti, composta di soli laureati tra i più intraprendenti. In termini economici, tra costo della formazione, quasi interamente pubblico, e perdita di forza lavorativa qualificata, il danno è di diversi miliardi all’anno. Si tratta dell’unica “materia prima” di cui l’Italia dispone, non perché il buon Dio ce l’ha attribuita territorialmente ma per le nostre tradizioni culturali e per la qualità di una parte significativa del nostro sistema educativo, dalla scuola all’università. Aggiungiamo che si tratta di una perdita da arginare in un contesto, per fortuna, di libera circolazione delle persone. Non esistono dazi al riguardo e l’esperienza di maggiori vincoli per docenti e studenti derivanti dalla Brexit è stata disastrosa per le università del Regno Unito. 

 

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Il Pnrr è stato molto generoso con l’Italia e con il sistema delle università. Nel solo capitolo relativo alle borse di dottorato, i tre cicli dal 2022 al 2024 hanno offerto quasi 14 mila borse, circa un miliardo di investimento in capitale umano qualificato. Legittimo quindi chiedersi cosa accadrà dopo, anche perché si tratta di risorse che l’Italia ha preso in gran parte a prestito dall’Europa. Il governo, per le cosiddette “Iniziative di sistema” avviate grazie al Pnrr, ha dato una prima risposta con la legge finanziaria per l’anno in corso, stanziando 150 milioni all’anno a partire dal 2027. E ha previsto, correttamente, una valutazione dei risultati, misurati da specifici indicatori e ponendo in tal senso il tema della qualità. 

Per quanto riguarda le persone, tuttavia, lo stallo della riforma sul pre-ruolo fa sì che non si intravedano delle soluzioni. Senza entrare troppo nel dettaglio, la nostra opinione è che il confondere il tempo determinato con il precariato, il richiedere che ogni contratto a termine diventi per legge a tempo indeterminato non sia corretto e fruttuoso neanche socialmente, anche perché eliminerebbe la selezione indispensabile a mantenere la qualità dei nostri atenei, una selezione che nel caso degli alti studi è normale avvenga su un periodo più esteso di quello coperto dalla formazione dottorale. Tra l’altro, sarebbe a quel punto più coerente abolire del tutto il tempo determinato, che è però, come tutte le esperienze storiche indicano con chiarezza, controproducente: non a caso saremmo gli unici a farlo, almeno nel campo della ricerca. 

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Diverso è porsi l’obiettivo di non abusare del tempo determinato allungando a dismisura i periodi a termine prima di una stabilizzazione e preoccuparsi dei criteri di quella selezione e dell’equità della loro applicazione, garantendo per quanto possibile che, almeno nel campo dell’università e della ricerca, a essere premiati siano i più dotati e i più devoti agli studi. 

Per trovare un buon compromesso occorrerebbe guardare alle migliori esperienze internazionali. Si potrebbe così trovare una prima risposta in un serio confronto con la ministra, aiutando le università a trovare una soluzione equilibrata. Nel frattempo, tuttavia, occorre subito affrontare il tema dei dottori di ricerca che, anche grazie al Pnrr, iniziano a giungere a compimento del percorso o hanno da poco conseguito il titolo

La nostra proposta è quella di prevedere da subito borse post doc per i migliori neodottori di ricerca che, in linea con le migliori prassi internazionali, permettano ai soggetti interessati di portare avanti un loro progetto personale (i nuovi contratti di ricerca non lo fanno) in condizioni favorevoli sotto il profilo economico e normativo, acquisendo altresì esperienza di insegnamento avanzato a livello post-laurea (cosa che i contratti di ricerca vietano). 

A tali opportunità potranno ovviamente accedere anche neodottori stranieri di qualità, un elemento che rafforzerebbe l’internazionalizzazione delle nostre università e creerebbe legami di lungo termine con l’Italia: anche se i vincitori dovessero poi ritornare nei loro paesi di origine o migrare altrove, di sicuro ricorderebbero di aver passato un periodo cruciale della loro maturazione nel nostro paese.

Queste borse post doc, che immaginiamo di durata biennale, si inserirebbero nel momento più critico del percorso di carriera nella ricerca, quello che viene subito dopo l’acquisizione del dottorato e prima dell’assunzione definitiva. Si tratta di un passaggio difficile anche nei paesi più avanzati, e l’esperienza ha dimostrato che un’offerta di buone borse di questo tipo attrarrebbe senz’altro in Italia giovani studiosi di grande valore, provenienti anche dai più noti atenei del mondo e anche nelle discipline umanistiche. Queste borse aiuterebbero, inoltre, a migliorare la qualità dei nostri dottorati di ricerca che hanno talvolta difficoltà a impostare un programma didattico dedicato, sistematico e di alto livello.

L’iniziativa potrebbe partire dallo stesso ministero che offrirebbe, ad esempio, 1.000 borse biennali all’anno a partire dal 2026 per un investimento inferiore ai 100 milioni, ipotizzando un costo non superiore ai 50.000 euro all’anno per ogni borsa, e includendo le coperture previdenziali e di tutela del caso. Una parte delle borse sarebbe rivolta alle discipline Stem e una parte alle altre aree e potrebbero anche avere un nome che le qualifichi. Ad esempio, “Borse Fermi/Hack” o “Borse Croce/Ginzburg” o altro ancora in onore dei nostri migliori pensatori e pensatrici di tutte le discipline.

Siamo partiti dal dato allarmante relativo ai talenti che si formano nel nostro paese e lo abbandonano subito dopo. Questa deriva si somma a due altri elementi di sistema: una denatalità che sta manifestando i suoi effetti sulle nostre imprese, incapaci di trovare i profili richiesti per qualità e quantità e un trasferimento generazionale che, anche dopo la tragedia del Covid, ha visto premiate le vecchie generazioni a discapito delle giovani. Ci auguriamo allora che la prossima finanziaria dedichi proprio ai giovani un capitolo a parte e che una proposta come la nostra trovi spazio insieme ad altre per rendere il nostro paese “il posto giusto dove andare”. Sarebbe un beneficio per i nostri migliori giovani studiosi e per quelli di tanti altri paesi, e un regalo a tutta l’Italia.

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