L’Italia sotto ricatto – Il rimpatrio di Al-Masri e il prezzo delle politiche migratorie italiane

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Cosa suona peggio: scarcerare un criminale internazionale, rimpatriarlo con un mezzo di Stato, oppure continuare a sostenere di aver fatto tutto questo a ragione? Nel dubbio, in merito al caso Al-Masri l’Italia ha deciso di mettere in atto tutte le opzioni! Una domanda sorge allora spontanea: perché?


Rinfreschiamo la memoria

L’11 febbraio l’opposizione (Azione esclusa) ha presentato in Parlamento una mozione di sfiducia contro il Ministro della Giustizia Carlo Nordio. È l’ultima di una lunga serie di evoluzioni scoppiate quando, il 21 gennaio scorso, l’Italia ha deciso di rimpatriare in Libia Osama Njeem Al-Masri, accusato dalla Corte Penale Internazionale (CPI) di crimini di guerra e contro l’umanità.

Questa mossa ha luogo dopo che Nordio, insieme al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, è stato iscritto al registro degli indagati per favoreggiamento. Il 5 febbraio Nordio e Piantedosi si sono presentati in Parlamento per riferire sul caso.

La premier Meloni grande assente in aula durante la discussione: non sembra tanto disposta a prendere le parti dei suoi amici di governo… Forse una decisione saggia, dal momento che la difesa dei due ministri risulta a dir poco fragile.

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Magistrato, ma lei lo conosce il diritto italiano?

Il ruolo del Ministro non è semplicemente quello di un organo di transito delle richieste che arrivano dalla Corte, non è un passacarte. È un organo politico che deve meditare il contenuto di queste richieste in funzione di un eventuale contatto con gli altri ministeri e con le altre istituzioni e gli altri organi dello Stato. Questo dice la legge, non è che arriva il fascicolo e io faccio da passacarte e lo passo, no.

Carlo Nordio

Caro Carlo, ho una notizia per te: ti tocca ripassare qualche fondamento di diritto! I rapporti tra lo Stato italiano e la CPI sono regolati dalla legge 237 del 2012, secondo la quale il Ministro della Giustizia ha il compito di richiedere l’esecuzione di un mandato di arresto della Corte dell’Aia senza poterlo sindacare. È vero, può confrontarsi con altri ministri e istituzioni in caso di bisogno, ma resta il fatto che contestare la validità del provvedimento non rientra nelle sue prerogative.

La legge 237, intitolata Adeguamento allo Statuto della Corte Penale Internazionale, ed è stata adottata proprio per introdurre nel diritto italiano gli obblighi che Roma si è assunta quando ha ratificato lo Statuto di Roma, fondamento della CPI. Sembra proprio che Nordio debba trovare una scusa migliore per giustificare una violazione del diritto internazionale.

I rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito.

Legge 237/2012, Articolo 2.1

E se fosse proprio il diritto a essere sbagliato?

Nelle scorse settimane Giorgia Meloni aveva accusato la CPI di non aver informato il governo italiano del mandato di arresto. Questa versione è presto stata smentita dal Guardasigilli, che ha ammesso di essere stato informato… ben tre volte! Domenica 19 gennaio alle 12:37 dalla CPI, lunedì 20 alle 12:40 dalla Procura Generale di Roma, e ancora lunedì alle 13:57 da parte dell’ambasciata italiana all’Aia.

Nordio però non si è dato per vinto e ha comunque trovato il modo di puntare il dito contro la CPI: la Corte avrebbe emesso un provvedimento non valido. Non solo ci sarebbe un salto temporale di quattro anni nelle date dei reati di cui è accusato Al-Masri, ma Roma avrebbe ricevuto un fascicolo non tradotto: come pretendere che un ministro legga 40 pagine in inglese?

La prossima volta almeno mettetevi d’accordo

Piantedosi ha offerto una visione leggermente diversa da quella di Nordio. Secondo il Ministro dell’Interno, la ragione per cui l’Italia ha rimpatriato un criminale internazionale su un aereo di Stato è che il suddetto criminale era ritenuto un “soggetto pericoloso“. La sua espulsione sarebbe quindi una questione di ragion di Stato. La preoccupazione del governo sarebbe stata che Al-Masri “rimanesse in Italia a piede libero”: a quanto pare nessuno ha minimamente contemplato l’opzione di un arresto.

Non a caso, infatti, mentre nel pomeriggio del 21 gennaio Nordio valutava il fascicolo sull’arresto per appianare i suoi dubbi, era già pronto un aereo per il rimpatrio del criminale: il volo di stato il Falcon 900 è stato trasferito da Torino a Roma prima che la Corte di Appello predisponesse la scarcerazione di al Mastri.

Matteo Piantedosi e Carlo Nordio (Angelo Carconi/ANSA).

Quindi è stata la Corte d’Appello, non il governo!

Non proprio. La Corte d’Appello ha proceduto alla scarcerazione di Al-Masri a causa del mancato intervento del Ministro della Giustizia Nordio, il quale, come prevede la legge 273, deve curare i rapporti tra Italia e CPI “in via esclusiva”. Il Guardasigilli si è invece arrogato il diritto di contestare la validità del mandato d’arresto dell’Aia — sulla base di criticità che, tra l’altro, la Corte d’Appello non ha riscontrato.

Questa vicenda va quindi ad alimentare lo scontro tra governo e magistratura. Nordio l’ha infatti sfruttata per sottolineare la tensione in corso da mesi tra potere esecutivo e potere giudiziario, scoppiata principalmente a causa della questione dei trasferimenti forzati di migranti in Albania.

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Eppure lo scontro con la magistratura non è l’unico motivo per cui il caso Al-Masri è strettamente legato al tema migratorio. L’Italia infatti non ha rimpatriato un libico a caso, ma il capo della polizia giudiziaria libica, nonché leader della milizia RADA e responsabile del lager di Mitiga, dove sono rinchiusi migliaia di migranti.

La politica migratoria spiega il comportamento del governo italiano

Per quanto le dichiarazioni del governo sembrino sminuire la questione, l’Italia si è cacciata in un bel guaio. Non solo è il primo Paese europeo sotto indagine della CPI, ma si è anche tolto la maschera di difensore dei diritti umani, dietro la quale gli altri membri UE cercano ancora di nascondersi. Insomma, un danno alla reputazione non indifferente — anche se nel clima politico attuale violare i diritti umani sembra un vanto più che una vergogna.

Se no perché Meloni starebbe già valutando l’apposizione del segreto di Stato?

Per quanto lievi potranno essere le conseguenze, Roma ha comunque deciso di complicarsi la vita: perché? La risposta sembra fin troppo semplice: la Libia riduce la pressione migratoria sui confini italiani rinchiudendo i migranti in campi di concentramento — falla arrabbiare e aspettati un’intera flotta di barconi che attraversa il Mediterraneo.

In poche parole, siamo sotto ricatto, e non è nemmeno una novità. Da un quarto di secolo l’Italia stringe con la Libia accordi che nel corso del tempo si sono concentrati sempre di più sul tema migratorio. L’obiettivo italiano — così come di tutti i Paesi che mettono in atto misure di esternalizzazione della migrazione — è liberarsi del problema dei migranti alla radice. Aspetta, esternalizza-che?!

L’esternalizzazione delle frontiere: un’arma a doppio taglio

L’esternalizzazione è da anni la nuova frontiera della politica migratoria europea: in pratica, si tratta di delegare la responsabilità di gestire i migranti ai Paesi vicini, sia in Africa che nel Vicino Oriente. Il motivo?

L’UE e i suoi Stati Membri sono sempre più intolleranti nei confronti dei migranti, rifiutandosi di investire in misure di controllo delle frontiere che rispettino il diritto internazionale umanitario. L’Unione paladina dei diritti umani, quindi, decide semplicemente di pagare qualcun altro per violare quei diritti

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Un vero e proprio occhio non vede, cuore non duole, che però non porta solo vantaggi a Roma e Bruxelles. I Paesi che si assumono il compito di lavare i nostri panni sporchi non lo fanno gratis: più in Europa monta la retorica del “difendere i confini”, più gli Stati del Vecchio continente dipendono da attori esterni per preservare la propria sicurezza.

Di questo se ne approfittano Paesi come appunto la Libia, la quale non solo riceve fondi e personale italiano per rinchiudere i migranti in campi di concentramento, ma riesce anche a tenere Roma costantemente sotto scacco.

Il caso Al-Masri non è il primo, non sarà l’ultimo

Nel 2010 Gheddafi pretendeva una rinegoziazione dell’accordo del 2008 secondo i termini libici, o altrimenti “domani l’Europa potrebbe non essere più europea, potrebbe essere addirittura nera, perché ci saranno milioni a voler entrare”.

L’anno dopo il regime, sotto i bombardamenti della NATO, minacciava che, se l’Italia non avesse ritirato il supporto ai ribelli, Lampedusa si sarebbe trasformata in un inferno: “Mettere migliaia di disperati sui barconi e gettare l’isola nel caos”.

E ancora, nel 2020 l’Italia ha rinnovato il Memorandum del 2017 per altri 3 anni senza alcun emendamento, nonostante rischiasse di incorrere in una seconda causa da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per complicità con la Libia nelle violazioni dei diritti dei migranti.

No, non è certo la prima volta che Roma è costretta ad acconsentire alle richieste della Libia per paura di una crisi diplomatica in campo migratorio. Ricordiamo solo che tutto questo avviene sulla pelle di migliaia di persone — quelle che Al-Masri ora può tornare impunito a torturare.

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Clarice Agostini

(In copertina immagine di ISPI: Irregular Migration in the Mediterranean: Down, but for How Long?)



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