Redazione
lavialibera
13 febbraio 2025
L’operazione di mercoledì 11 febbraio e, prima ancora, quella del 29 gennaio. A Palermo magistratura e forze di polizia si sono date un gran daffare per contrastare una “intensa e attuale opera di riorganizzazione di Cosa nostra” nelle sue varie articolazioni all’interno della città. Lo si legge nel decreto di fermo – firmato il 4 febbraio – su cui si basa l’operazione eseguita all’alba di mercoledì dai carabinieri del comando provinciale di Palermo, che hanno arrestato 163 persone, e dal Raggruppamento operativo speciale dell’Arma, che ne ha arrestati altri venti. Sono stati quasi 1.200 i militari impegnati, cinque i sostituti procuratori che hanno firmato l’atto, a cui si sommano la procuratrice aggiunta Marzia Sabella e il procuratore Maurizio De Lucia.
La difficile riorganizzazione di Cosa nostra
“Le persone di una volta, quelli che disgraziatamente sono andati a finire in carcere per tutta la vita, ma che parlavano della panetta di fumo? Cioè se ti dovevano fare un discorso di fumo, te lo facevano perché doveva arrivare una nave piena di fumo”Giancarlo Romano – Boss emergente del quartiere Brancaccio ucciso il 26 febbraio 2024
Il quadro tracciato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo attraverso le indagini è quello di un’organizzazione in cui i vecchi boss di Cosa nostra rimasti in circolazione, oppure tornati liberi dopo un lungo periodo di detenzione, cercano di ripristinare un ordine che le generazioni più giovani non sono state in grado di mantenere, ridotte a “campare con la panetta di fumo”: “Le persone di una volta, quelli che disgraziatamente sono andati a finire in carcere per tutta la vita, ma che parlavano della panetta di fumo? Cioè se ti dovevano fare un discorso di fumo, te lo facevano perché doveva arrivare una nave piena di fumo”, spiegava in maniera efficace Giancarlo Romano, 37 anni, boss emergente del quartiere Brancaccio ucciso il 26 febbraio 2024. Le nuove generazioni mafiose sarebbero incapaci di creare legami importanti con il potere politico, economico e la massoneria. “Il livello è basso oggi arrestano a uno e si fa pentito arrestano un altro. Livello misero, basso”, affermava Romano constatando il quadro intorno a sé. “Noi dobbiamo crescere”, diceva. E per farlo, spronava l’interlocutore: “A scuola te ne devi andare”, perché lì “conoscerai dottori, avvocati, quelli che hanno comandato l’Italia, l’Europa”, e anche i massoni, “gente con certi ideali ma messi nei posti più importanti”. Faceva l’esempio de Il Padrino, l’immaginario don Vito Corleone che “non era il capo assoluto”, ma era “molto influente per il potere che si è costruito a livello politico nei grossi ambienti”.
Emerge che ad ogni arresto di un capo di un mandamento (cioè l’area controllata da una o più famiglie di Cosa nostra), si provvede a sostituirlo temporaneamente con un reggente che, a sua volta, se arrestato sarà subito rimpiazzato. Eppure, nonostante la disponibilità di ricambi, quella descritta dalle operazioni è anche un’organizzazione stanca di adoperarsi per mantenere i tanti detenuti e le loro famiglie, e molto indebolita dall’azione dello Stato, che ha sempre stroncato sul nascere ogni tentativo di ricostituire la commissione provinciale (cioè la Cupola, l’organismo che raggruppa i capi dei mandamenti di una provincia): “Se l’hannu fattu tre volte e tre volte al nascere della cosa hanno arrestato a tutti…”, diceva un detenuto (Francesco Pedalino, di Santa Maria di Gesù) il 28 febbraio 2024.
Dopo la morte di Totò Riina, a Palermo Cosa nostra ha tentato di riorganizzarsi
Colpiti i mandamenti della città
Gli arresti di mercoledì colpiscono i presunti appartenenti alle famiglie mafiose dei mandamenti di Porta Nuova, Pagliarelli, Tommaso Natale – San Lorenzo, Bagheria e Santa Maria del Gesù, quasi mandamenti “cittadini”. In passato, altre inchieste – come l’operazione Cupola 2.0 del dicembre 2018, con l’arresto di Settimo Mineo, il boss che stava ricostituendo la commissione provinciale dopo la morte del “capo dei capi”, Totò Riina – ha dimostrato che i mandamenti della città di Palermo hanno riconquistato un ruolo centrale rispetto alle famiglie della provincia e all’ala corleonese.
Come riassume la Direzione investigativa antimafia nelle sue ultime relazioni, l’assenza di un organo di vertice non ha impedito gli accordi tra i diversi mandamenti “basati sulla condivisione delle linee d’indirizzo e sulla ripartizione delle sfere d’influenza”. E l’ultima indagine dei carabinieri dimostra che, pur senza la commissione provinciale, i reggenti dei vari mandamenti palermitani, però, comunicavano tra di loro. Lo facevano in maniera riservata, con telefonini in cui mettevano schede Sim intestate a cittadini stranieri, oppure attraverso sistemi criptati di telefonia. Questa tecnologia ha permesso a Giuseppe Auteri, uomo al vertice del Mandamento di Porta Nuova, di vivere per due anni in latitanza (in una fase in cui non vi erano altri esponenti influenti in libertà) continuando a reggere l’organizzazione. Con se aveva due criptofonini, grazie ai quali manteneva i suoi contatti. Le indagini hanno anche riscontrato la possibilità di introdurre negli istituti penitenziari minuscoli apparecchi telefonici e migliaia di sim card che hanno permesso ai detenuti, dalle loro celle, di mantenere i contatti e coltivare gli affari.
Tramite i criptofonini, inoltre, i capi dei mandamenti si confrontavano in segreto per concordare i prezzi della droga e regolare gli affari tra di loro.
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Droga ed estorsioni. La ripresa degli affari
E così la Dda di Palermo ritiene ci sia stata una “graduale ripresa di Cosa nostra, favorita, come detto, dal rinnovato spirito di cooperazione negli affari” – estorsioni a tappeto e ritorno al traffico di stupefacenti in accordo con la ‘ndrangheta, giochi e delle scommesse digitali – che ha dato un “rinnovato appeal” capace di attrarre nuove leve: “Già il solo numero dei soggetti destinatari degli odierni provvedimenti restrittivi dimostra, al netto dei nomi storici, che l’organico di Cosa nostra, quantomeno nel tempo di svolgimento delle presenti indagini, è in continuo aumento”, si legge nel decreto della procura palermitana. Ed è particolare la frase detta da un uomo a un giovane: “Posa questo telefono, vieni qua che ti insegno”. “Ti insegno” a riscuotere il pizzo.
Le estorsioni – appunto – restano una delle attività principali della mafia palermitana. I mafiosi impongono la fornitura di caffè o di rotoloni, ma anche di pesce, mitili e frutti di mare ai ristoranti delle borgate marinare di Sferracavallo e Mondello “estromettendo la concorrenza, previa individuazione di un noto imprenditore del settore, deputato a fornire la materia prima”, si legge nella nota stampa dei carabinieri. Nel complesso sono stati accertati circa 50 episodi di estorsione tra consumate e tentate. In pochissimi casi le vittime hanno denunciato la richiesta di “pizzo”.
Cosa nostra è “ancora oggi particolarmente attiva ed economicamente florida”, scriveva il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia in una nota, datata 20 settembre 2024, citata nelle relazioni dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Le investigazioni e i conseguenti processi degli ultimi anni sono stati in grado di evidenziare come l’organizzazione mafiosa Cosa nostra è restata perfettamente attiva, con sempre nuovi referenti per le proprie esigenze di controllo del territorio e, soprattutto, ha continuato a conservare le proprie vecchie regole mafiose ricostituendo in modo lesto e spregiudicato gli organi di vertice ogni volta che i precedenti sono stati arrestati e processati”.
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I vecchi pensano ad appalti, imprenditori e politica
Quello di mercoledì è soltanto l’ultimo colpo degli investigatori in ordine di tempo contro le organizzazioni di Palermo città. Il 29 gennaio l’operazione condotta dalla Squadra mobile della questura di Palermo ha portato (o meglio, riportato) in carcere alcuni mafiosi del mandamento di Passo di Rigano, alcuni dei quali già condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, poi “rientrati, e a pieno titolo, dopo lunghi periodi di detenzione, nelle fila della famiglia mafiosa di Uditore”.
Tra di loro spicca il nome di Francesco (Franco) Bonura, imprenditore mafioso 82enne: dopo aver passato in carcere 21 anni e otto mesi, il 13 novembre 2020 era uscito di prigione e “a soli due mesi di distanza dalla sua scarcerazione” si metteva in contatto con Agostino Sansone che insieme ai fratelli (detenuti) controllava una fetta del settore degli appalti. “In forza del suo riconosciuto prestigio criminale”, Bonura voleva “reinserirsi nel sodalizio mafioso, reintroducendosi nel sistema di controllo degli appalti” e voleva affiancare Sansone “nella direzione della cosca”. Era tornato sulla scena per ricomporre antichi equilibri e per “allacciare e consolidare relazioni con esponenti della vita politica e imprenditoriale”, si legge nell’ordinanza. Per allacciare contatti con uomini d’affari e politici, gli inquirenti sospettano volesse sfruttare i rapporti dello “chef dei vip” Mario Di Ferro, che spacciava cocaina (ha patteggiato una pena di quattro anni) a importanti personaggi palermitani.
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