Gli ecosistemi d’acqua dolce – fiumi, laghi, stagni, paludi – coprono meno dell’1% della superficie del pianeta, ma sono autentici scrigni di biodiversità: è in questi ambienti che vive oltre il 10% della biodiversità globale, compreso circa un terzo di tutti i vertebrati e più della metà dei pesci esistenti. Inoltre, gli ambienti d’acqua dolce forniscono a noi umani servizi ecosistemici importanti (sono essenziali per il controllo delle alluvioni, contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico, e hanno un ruolo centrale nel ciclo dei nutrienti) e sostengono la cultura e l’economia di miliardi di persone in tutto il mondo.
Eppure, proprio questi ecosistemi così importanti per la biodiversità sono tra i più bistrattati negli sforzi di conservazione della natura. Tra il 1970 e il 2015, il 35% delle zone umide globali è andato perduto: un livello di distruzione tre volte più veloce della deforestazione, problema che invece (fortunatamente) ha guadagnato da tempo l’attenzione pubblica. Le zone umide rimanenti non versano in ottime condizioni di salute: il 65% di esse è esposto a un livello di rischio moderato o alto, e il 37% dei fiumi più lunghi di 1000 km è almeno in parte irregimentato.
Tutti questi dati sono forniti da un importante articolo pubblicato sulla rivista scientifica Nature, che per la prima volta restituisce un’analisi globale dello stato di salute delle specie animali che vivono negli ecosistemi d’acqua dolce.
Guarda l’intervista completa a Leonardo Congiu. Intervista di Sofia Belardinelli, riprese e montaggio di Massimo Pistore. Si ringrazia Paolo Bronzi per le riprese degli storioni
Gli ambienti d’acqua dolce, una realtà ancillare nella conservazione
Sotto gli auspici della IUCN, l’Unione internazionale per la conservazione della natura, questa ricerca – firmata da 88 esperti – presenta la prima valutazione globale del livello di minaccia delle specie d’acqua dolce. È un pezzo di conoscenza molto importante per la progettazione degli sforzi di conservazione, e che finora aveva costituito una grave mancanza per la nostra comprensione della crisi della biodiversità. Come scrivono gli autori della ricerca, infatti, da almeno vent’anni sono state portate a termine (e anche più volte aggiornate) le valutazioni globali su gruppi tassonomici come gli uccelli, gli anfibi, i mammiferi e, più di recente, i rettili; a confronto con questo impegno di mappatura, “la produzione di dati e valutazioni globali per i pesci e gli invertebrati d’acqua dolce ha ricevuto pochi investimenti, uno scarso interesse politico e poca attenzione anche dalla comunità dei conservazionisti mainstream”.
Questo ha portato all’attuazione di misure di protezione poco precise e, di conseguenza, scarsamente efficaci; inoltre, “fino a poco tempo fa – scrivono gli autori dello studio – la governance ambientale globale non ha dato agli ambienti d’acqua dolce la stessa priorità degli ambienti terrestri e marini”.
Il 24% delle specie d’acqua dolce rischia l’estinzione
I risultati di questo assessment globale sono preoccupanti ma non inaspettati, e in linea con la crisi della biodiversità negli ambienti terrestri e marini: dalla valutazione dello stato di conservazione di circa 23.500 specie d’acqua dolce appartenenti a tre gruppi tassonomici (crostacei (decapodi), libellule (odonati) e pesci) emerge che circa un quarto di esse (il 24%) è da classificare come a rischio d’estinzione in base alle categorie della IUCN. Più precisamente, il gruppo che presenta il maggior rischio di estinzione è quello dei decapodi (30% delle specie valutate), seguito dai pesci (26% delle specie) e dagli odonati (16% delle specie).
Bisogna inoltre considerare che questi dati potrebbero rappresentare una stima conservativa, dal momento che l’assessment non comprende tutti i gruppi esistenti: ad esempio, mancano i molluschi d’acqua dolce, gruppo per cui una valutazione parziale ha indicato che circa un terzo delle specie potrebbe essere a rischio d’estinzione, e ha stimato che un quarto delle specie a rischio critico potrebbe essere già estinto.
Inoltre, gli autori scrivono che “il vero numero delle estinzioni di specie d’acqua dolce” (si contano 89 specie estinte dal 1500 ad oggi tra quelle monitorate e 11 specie estinte in natura, e sopravvissute solo in cattività) “sarà probabilmente più alto, vista la generale carenza di ricerca e monitoraggio a lungo termine sulla biodiversità d’acqua dolce”.
Conservare e rinaturalizzare
La pubblicazione di questa prima valutazione globale è comunque un grande traguardo: lo sottolinea Leonardo Congiu, docente di ecologia all’università di Padova e coautore di questo global assessment in quanto coordinatore del Gruppo Specialistico sugli Storioni della IUCN. Congiu spiega che la IUCN, che è la più grande istituzione internazionale per lo studio e la protezione della biodiversità, ha tra i suoi principali obiettivi proprio la classificazione delle specie viventi in diverse categorie di rischio: è sulla base di queste valutazioni che si prendono le decisioni sulle strategie di conservazione da seguire e sulla destinazione delle risorse finanziarie disponibili.
“Questo assessment – spiega il professore – è la sintesi di molti anni di lavoro, e ha coinvolto migliaia di esperti impegnati a raccogliere tutte le informazioni necessarie relative al gruppo tassonomico di cui sono specialisti. Si tratta di un impegno volontario che gli esperti assumono regolarmente. Io, ad esempio, ho guidato il gruppo che si occupa di storioni: il nostro assessment più recente è stato pubblicato nel 2022, e come gli esperti di molti altri gruppi, abbiamo riscontrato negli storioni una chiara tendenza negativa”. Gli storioni – prosegue Congiu – sono una “specie bandiera” dello stato di salute della biodiversità d’acqua dolce: il gruppo, che consta di 26 specie, è infatti quello a maggior rischio di estinzione al mondo.
In questo quadro tutt’altro che roseo, un segnale positivo arriva proprio dall’Italia. Qui erano presenti, storicamente, tre specie di storione: due di queste (lo storione beluga, Huso huso, e lo storione comune, Acipenser sturio) sono localmente estinte. Lo storione cobice – il più piccolo e di conseguenza il meno ambìto dal punto di vista economico, nota il professore – è l’unico ancora presente in Italia. Questa specie è stata oggetto, negli ultimi trent’anni, di molti sforzi di conservazione che, seppur non sempre ben coordinati, hanno dato risultati notevoli: infatti, mentre tutte le altre specie di storione sono oggi in declino, l’unica che ha registrato una tendenza positiva è proprio lo storione cobice, passato dalla categoria di “estinto in natura” ad essere soltanto “a rischio critico di estinzione”.
Si tratta di un risultato notevole, che è stato raggiunto – puntualizza Congiu – nonostante il pessimo stato di conservazione degli ambienti d’acqua dolce italiani. “I nostri fiumi, ad esempio, sono totalmente devastati”, afferma l’esperto. “Molti dei corsi d’acqua esistenti sono sbarrati allo scopo di immagazzinare acqua da utilizzare per la produzione di energia o destinata ad uso agricolo, industriale o urbano. Questi sbarramenti causano gravi danni per le molte specie che, come lo storione, devono risalire i fiumi per raggiungere i luoghi di riproduzione; inoltre, alterando i regimi idrologici, si modificano drasticamente gli ambienti fluviali a monte e a valle degli sbarramenti stessi. Nei secoli, i fiumi sono stati pesantemente deviati, canalizzati e resi tendenzialmente rettilinei, e la loro portata è stata regolata in base alle esigenze umane, limitandone il naturale dinamismo, impedendo loro di esondare dove necessario e alterando l’equilibrio dell’ambiente circostante. Queste opere di incanalamento e rettificazione, oltre ad accorciare significativamente i fiumi, li trasformano in “tubi” in cui l’acqua scorre molto più rapidamente di quanto dovrebbe, privandoli della loro capacità di metabolizzare inquinanti e di mitigare eventi meteorologici estremi. Di fronte alle piogge anomale sempre più frequenti che osserviamo anche nel nostro Paese, questi fiumi, ormai molto artificiali, non riescono a contenere l’acqua in eccesso, aumentando il rischio di disastri idrogeologici”.
“Tutto questo – aggiunge il professore – si riflette anche sulla biodiversità, che subisce questi interventi di imbrigliamento delle acque e la conseguente scomparsa di tutti quegli ecosistemi che tipicamente fiancheggiano i fiumi, come le lanche e le golene, e che hanno un ruolo fondamentale nel ciclo vitale di moltissime specie. Un ulteriore elemento di disturbo che affligge gli ecosistemi d’acqua dolce in Italia è la presenza di un’enorme quantità di specie alloctone, generalmente rilasciate a scopo alieutico (per la pesca sportiva), che hanno un terribile impatto sulla biodiversità autoctona”.
Per tutelare gli ecosistemi d’acqua dolce e ridurre i disastri naturali bisognerebbe imboccare la strada opposta: “La conservazione degli ambienti d’acqua dolce dovrebbe passare dalla loro rinaturalizzazione, ripristinando la connettività longitudinale ma anche quella laterale con gli ambienti circostanti”, afferma Leonardo Congiu. Anche in Italia ci sono alcuni primi passi nella direzione giusta, che, se ben guidati, potranno portare risultati positivi: “Molti fondi europei del PNRR sono stati destinati a progetti per la rinaturalizzazione di alcune aree del Po. E poi esiste il National Biodiversity Future Center, un grande progetto di ricerca che coinvolge centinaia di ricercatori su scala nazionale, il cui scopo è contribuire alla tutela della biodiversità italiana partendo da una descrizione accurata: il primo risultato importante sarà la restituzione di un quadro completo biodiversità italiana, che è molto meno conosciuta di quanto si possa immaginare”.
Strategie specifiche per tutelare gli ecosistemi d’acqua dolce
L’impegno per accrescere le conoscenze sulla biodiversità è essenziale non solo a livello locale, ma anche su scala globale. Lo studio pubblicato su Nature, infatti, non fornisce solo nuovi dati, ma chiarisce anche quali siano i metodi più corretti per valutare lo stato di conservazione delle specie d’acqua dolce. Finora, infatti, il rischio d’estinzione per queste specie ed ecosistemi è stato calcolato principalmente facendo affidamento su dei “surrogati”, informazioni indirette che si riteneva potessero essere abbastanza affidabili da poter essere estese anche agli ambienti e alle specie in questione. Uno dei proxy più usati per le specie d’acqua dolce è lo stato di conservazione dei tetrapodi (anfibi, rettili, uccelli, mammiferi), che i ricercatori hanno valutato come non perfettamente attendibile, ma comunque più valido di un altro surrogato impiegato spesso – lo stato di salute dell’ecosistema in base a fattori abiotici, come l’eutrofizzazione dell’acqua o il livello di degradazione causato dalle attività – che è stato giudicato del tutto inattendibile. “Fare affidamento su questi surrogati per prendere decisioni di conservazione e di gestione può portare a risultati subottimali o persino dannosi: per questo, le strategie di conservazione che si basano su indicatori abiotici dovrebbero essere riesaminate”, si legge nella ricerca.
“Il messaggio fondamentale di questo lavoro – commenta Congiu – è che bisogna mettere a punto strategie di conservazione specificamente pensate per gli ecosistemi e per le specie d’acqua dolce”, dar loro, insomma, l’attenzione e la dignità che meritano in virtù della loro importanza per la biodiversità globale.
Qualche progresso in questa direzione si è già compiuto: nel Global Biodiversity Framework, l’accordo internazionale (non vincolante) firmato dai Paesi membri delle Nazioni Unite nel 2022 che stabilisce le priorità e le strategie di tutela della biodiversità per il decennio 2020-2030, si nominano le “acque interne” (inland waters) come obiettivo di conservazione a sé stante, e non assimilandolo agli ambienti terrestri o marini. È un riconoscimento rilevante, certo, ma tutt’altro che sufficiente.
Gli esperti di ecosistemi d’acqua dolce che hanno condotto questo primo studio globale chiedono maggiori sforzi per proteggere questi ambienti: “Il prossimo passo – spiegano nell’articolo – è diffondere questi nuovi dati tra tutte le parti interessate”, dal livello locale fino alle istituzioni internazionali. Gli autori aggiungono che “questi soggetti dovrebbero ricevere supporto per integrare queste nuove conoscenze nelle proprie attività di tutela, collegando la ricerca scientifica ad interventi di gestione e conservazione basati su dati concreti, a beneficio delle specie d’acqua dolce”.
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