La quinta rottamazione delle cartelle esattoriali è un siluro alla credibilità dell’erario

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Tasse e welfare (cioè sanità, istruzione e assistenza) si sono storicamente mossi insieme. Minando la prima con la politica delle rottamazioni  – e con il via libera a ogni tipo di evasione fiscale, oltre a un sistema talmente iniquo – si mina anche il secondo

Una quinta rottamazione delle cartelle esattoriali, l’abbassamento di qualche punto di una delle aliquote legali dell’Irpef “a favore dei ceti medi”: se ne discute in questi giorni solo in termini di costi.

Non è un punto indifferente: 5,2 miliardi subito e altri 3 nel prossimo anno, per la prima; 3-4 miliardi per la seconda, e per giunta a regime. Non lo dovrebbe essere per un governo che ha appena chiuso una legge di bilancio che non è riuscita a trovare un solo euro per assumere medici e infermieri, la cui carenza sta mettendo in ginocchio il sistema sanitario, o che ha tagliato drasticamente i fondi ai Comuni, costretti, per finanziare i servizi indispensabili ai cittadini, ad appaltarli a imprese o cooperative a prezzi così bassi da potere reggere solo schiavizzando i propri lavoratori. Ma quello finanziario non è né il solo né il più importante costo di queste proposte.

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Credibilità

Il costo più drammatico del cedimento alla quinta rottamazione, così come alla pantomima della riapertura infinita dei termini per tutti quelli che aderiscono, poi non pagano, poi vengono riammessi, poi non pagano di nuovo, in una sequenza senza fine che si traduce nel fatto che alle prime quattro rottamazioni mancano all’appello ben 21,6 dei 64,5 miliardi rottamati, è la credibilità e quindi la sostenibilità del sistema fiscale.

L’ipotesi per cui chi non paga va sempre compreso e aiutato, perché è sicuramente, per definizione, in una situazione economica critica, divide il paese in due categorie contrapposte: chi può scegliere di non pagare e chi invece è costretto a farlo, perché le imposte gli vengono prelevate alla fonte dal suo datore di lavoro, dall’ente previdenziale, fin anche dalla sua banca. E a cui nessuno va a chiedere se poteva pagare oppure no.

Si chiama “imposta” perché è obbligatoria, se resta imposta per alcuni e diventa invece libera facoltà per altri, il sistema non regge più. Allo stesso modo è sempre meno sostenibile un sistema fiscale che distribuisce l’onere in modo casuale, creando continuamente regimi speciali e alternativi all’Irpef per categorie di reddito, di redditieri, quando non di singoli porzioni degli stessi redditi, violando il principio basilare per cui a pari reddito si dovrebbe pagare la stessa imposta.

Tre aliquote (più otto)

Quel che resta dell’Irpef, la principale imposta del nostro ordinamento, è un coacervo indescrivibile in cui le aliquote (marginali) legali, le famose tre aliquote, si intersecano con bonus decrescenti al crescere del reddito e detrazioni per tipo di reddito anch’esse variamente articolate. Con l’effetto che alle tre aliquote invocate come semplificazione del sistema fiscale, si affiancano ora ben otto aliquote (marginali) effettive: che ci dicono come varia l’imposta al variare del reddito del contribuente. Otto aliquote effettive con un andamento totalmente erratico, per cui capita che un lavoratore con un reddito lordo di 35.000 euro, a fronte di un aumento di 100 euro faticosamente conquistato in contrattazione, restano in tasca solo 44 euro.

Problema a cui si può rimediare non con il maquillage di questa o quella aliquota su cui si sta cimentando questo governo, ma, ad esempio, con l’introduzione di un sistema alla tedesca, in cui l’aliquota media (e cioè il peso dell’imposta) cresce in maniera dolce ma continua, fino a un certo limite, al crescere del reddito. Un sistema che può essere modulato, questo sì, per non gravare interamente sul ceto medio, come invece avviene tipicamente in tutti i sistemi di flat tax o con poche aliquote legali, come quello della riforma Meloni.

È a questo che il viceministro Leo dovrebbe dedicarsi. Oltre che a evitare, invece di enfatizzarla, l’assurda diseguaglianza che ferisce il mondo del lavoro in cui i giovani costretti, pur se per guadagnare redditi bassi, ad aprirsi una partita Iva e a lavorare come finti autonomi o come moderni lavoratori su piattaforme che distribuiscono lavori a distanza, sopportano un onere più elevato dei dipendenti con redditi da lavoro simili, mentre gli autonomi con redditi medi o medio alti, purché sotto gli 85mila euro di ricavi, pagano fino alla metà dei lavoratori dipendenti con uguali redditi, e si sottraggono anche al dovere di finanziare il proprio Comune e la propria Regione con le addizionali all’Irpef.

Il danno al welfare

Imposta generale sui redditi e welfare universale, cioè sanità, istruzione e assistenza per tutti i cittadini, si sono storicamente mossi insieme. Minando la prima, la politica delle rottamazioni e, con essa, il via libera a ogni tipo di evasione fiscale, così come la costruzione di un sistema talmente iniquo da risultare inaccettabile per una società che si voglia coesa, mina anche il secondo. Questo legame dovrebbe essere l’oggetto di una autentica educazione finanziaria inclusa nell’educazione civica fin dai banchi di scuola, solo a parole strombazzata da questo governo.

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