Nel grande scacchiere geopolitico, dove la legge spesso si piega agli interessi dei più forti, gli Stati Uniti hanno lanciato un duro attacco contro la Corte Penale Internazionale (CPI), imponendo sanzioni in risposta alle indagini sui presunti crimini di guerra commessi dai soldati americani in Afghanistan e dai militari israeliani a Gaza. La decisione dell’amministrazione statunitense, che definisce le azioni della CPI “illegali e infondate”, segna un altro capitolo nel lungo conflitto tra Washington e il diritto internazionale, sollevando interrogativi profondi sulla credibilità dell’ordine giuridico globale.
Washington dichiara guerra alla Corte Penale Internazionale: giustizia o impunità?
Non è la prima volta che gli Stati Uniti si scagliano contro la Corte con sede all’Aia. Fin dalla sua istituzione, nel 2002, Washington ha sempre rifiutato di riconoscere la giurisdizione della CPI sui propri cittadini, sostenendo che le sue forze armate e i suoi funzionari debbano rispondere solo alla giustizia nazionale. L’ossessione americana per la propria immunità giuridica ha portato a episodi emblematici, come il cosiddetto American Service-Members’ Protection Act, noto anche come The Hague Invasion Act, che autorizza l’uso della forza per liberare qualsiasi cittadino statunitense detenuto dalla CPI.
Ma questa volta il braccio di ferro ha assunto una connotazione ancora più dura. Le indagini aperte sulla condotta delle truppe statunitensi in Afghanistan e dei militari israeliani nei Territori Occupati toccano due nervi scoperti dell’establishment americano: da un lato, il timore di un precedente giuridico che potrebbe incrinare il dogma dell’impunità per le proprie operazioni militari; dall’altro, la necessità di proteggere Israele, storico alleato e avamposto strategico in Medio Oriente.
La reazione dell’Europa e il principio di indipendenza della giustizia
La risposta dell’Unione Europea non si è fatta attendere. Bruxelles ha condannato le sanzioni come una “minaccia all’indipendenza della giustizia internazionale” e ha ribadito il proprio sostegno alla CPI, sottolineando il ruolo cruciale della Corte nel garantire che nessuno sia al di sopra della legge, indipendentemente dalla sua potenza militare o economica.
Se l’Europa difende l’autonomia della Corte, il resto del mondo osserva con crescente disillusione. Le dichiarazioni del procuratore della CPI, che ha ribadito l’impegno nel “fornire giustizia e speranza a milioni di vittime innocenti di atrocità”, si scontrano con la dura realtà di un’istituzione sempre più sotto attacco da parte delle grandi potenze. Perché se è vero che la Corte ha dimostrato di poter incriminare leader africani e dittatori di regimi caduti in disgrazia, la sua capacità di perseguire le superpotenze rimane, nei fatti, un’utopia.
Giustizia selettiva e le ombre sull’ordine internazionale
La vera questione sollevata dalle sanzioni statunitensi non riguarda solo la CPI, ma il futuro stesso del diritto internazionale. Se una potenza globale può impunemente delegittimare e punire un’istituzione creata per perseguire i crimini più gravi contro l’umanità, cosa rimane della tanto sbandierata “rule-based international order”? Il rischio è che si rafforzi una giustizia selettiva, in cui le leggi valgono solo per i deboli, mentre i forti restano intoccabili.
Nel frattempo, l’amministrazione americana si prepara a nuove mosse. Potrebbero seguire restrizioni sui finanziamenti alla CPI o ulteriori misure contro i suoi funzionari. Israele, dal canto suo, ha accolto con favore la decisione statunitense, denunciando le indagini della Corte come un attacco politico mirato.
Il bivio della comunità internazionale
Di fronte a questa escalation, la comunità internazionale si trova a un bivio: difendere la CPI e il principio di giustizia universale, oppure piegarsi alla logica del potere, accettando che alcune nazioni possano restare al di sopra delle regole.
Ma la storia insegna che l’impunità non è mai priva di conseguenze. Più le grandi potenze svilupperanno strumenti per sottrarsi alla giustizia, più aumenterà il rischio di una regressione verso un mondo dove il diritto del più forte sostituisce il diritto in sé.
Nel frattempo, tra i corridoi dell’Aia, il messaggio sembra chiaro: la CPI non arretrerà, almeno nelle dichiarazioni ufficiali. Resta da vedere fino a che punto potrà resistere senza il sostegno concreto della comunità internazionale. Perché se la giustizia è davvero universale, allora nessuno – nemmeno gli Stati Uniti – dovrebbe potersi dichiarare al di sopra di essa.
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