“Metti La Protezione”, Marti Stone e Andro firmano il nuovo spot Control


Un po’ di tempo fa, in un cinema d’essai semideserto, ci siamo imbattuti in un proiettore che sputava fuori un nastro di pellicola 35mm – un po’ rovinato, a tratti sfrigolante, con qualche segnetto di usura ma dal fascino innegabile. Alcuni di noi in redazione non vedevano una bobina vera e propria da anni, e non è stato solo un tuffo nostalgico: è emerso un pensiero ricorrente, quasi un tarlo in mezzo a tanto digitale, che ci domandava: “Ma davvero la pellicola è destinata a scomparire?” Ecco, a quanto pare, la risposta non è così semplice.

Il ritorno dei dinosauri… con la grana della pellicola

In questo 2025, nel bel mezzo di una giungla di produzioni tutte concentrate su CGI e telecamere digitali, certi registi – e neanche pochi – continuano cocciutamente a srotolare quei rulli di celluloide che molti davano per finiti. “Jurassic World – La rinascita” ne è un esempio emblematico. Sì, stiamo parlando del settimo capitolo della saga inaugurata da Steven Spielberg nel 1993. Alla guida di questo nuovo episodio, troviamo Gareth Edwards, lo stesso che ha diretto “Godzilla” e “Rogue One”.

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Qui il 35mm spunta qua e là, con alcune sequenze ibride realizzate in digitale: un compromesso forse, ma abbastanza singolare per un blockbuster che, almeno secondo i commenti trapelati finora, desidera fondere l’impronta classica della grana su pellicola con la potenza degli effetti speciali moderni. E pare che l’obiettivo finale sia farci vivere un senso di stupore ancora più accentuato, quasi un tributo alla magia primordiale di “Jurassic Park”, ma con un piglio contemporaneo.

Oscar 2025 e il fascino della celluloide

La verità è che la pellicola è dura a morire. Basta vedere i film premiati agli Oscar di quest’anno: “Anora”, “The Brutalist” e “Io sono ancora qui” hanno trionfato anche grazie a una fotografia che molti, senza mezzi termini, definirebbero reale, con una profondità capace di innescare forti emozioni. Certo, non si tratta di demonizzare il digitale o di ignorare la sua comodità (costruire set, ripetere innumerevoli ciak, correggere i colori in un batter d’occhio). Ma c’è un drappello di registi che non ha nessuna intenzione di abbandonare la cara, vecchia pellicola.

La doppia avventura dei fratelli Safdie

In questa annata di sperimentazioni, i fratelli Safdie hanno addirittura raddoppiato, ma con due progetti separati. Da un lato, Josh Safdie firma “Marty Supreme”, una specie di dramedy sportiva su un campione di ping-pong degli anni Cinquanta, interpretato da Timothée Chalamet. Non un biopic nudo e crudo, più un viaggio a ruota libera in un’epoca che oscilla tra la raffinatezza e l’azzardo di un certo sottobosco sportivo. In tanti hanno già scomodato paragoni altisonanti: “Prova a prendermi” di Steven Spielberg e “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese, fusi in una specie di ritratto vivace e forse un po’ folle. Il tutto rigorosamente in 35mm.

Dall’altro, Benny Safdie ha preferito le atmosfere dure delle MMA con “The Smashing Machine”, incentrato sulla figura del lottatore Mark Kerr. Qui si è optato per il 16mm, un formato più grezzo, che fa risaltare la tensione e la fisicità delle scene. In pratica, due film fratelli, eppure distanti per stile: la comune passione per la pellicola testimonia, però, la volontà di preservare un aspetto artigianale e caldo delle immagini.

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I registi che osano il grande formato

Dall’action-sportivo all’horror psicologico: Ryan Coogler – amato dal pubblico per “Creed” e i due “Black Panther” – adesso si è lanciato su un terreno completamente diverso con “I Peccatori”. Un horror ambientato negli anni Trenta, epoca delle leggi di Jim Crow, in cui Michael B. Jordan interpreta due gemelli costretti a convivere con suggestioni tra voodoo e vampirismo. La vera notizia, però, è l’utilizzo della pellicola a 65mm, con cineprese Ultra Panavision 70 e IMAX 65mm, in grado di avvolgere lo spettatore in un abbraccio ipnotico e inquietante.

Voglia di formati ancor più insoliti? Eccovi accontentati: “Hurry up Tomorrow” di Trey Edward Shults – che vede in scena The Weeknd, Jenna Ortega e Barry Keoghan – alterna 35mm, 16mm e perfino il super8, riportando in auge quell’estetica da filmino di famiglia che può colpire al cuore per la sua aria sognante e imperfetta.

Non solo blockbuster: il fascino del 35mm nel cinema d’autore

A volte sembra che la pellicola sopravviva solo nei grandi kolossal, magari per scelte di marketing o per rievocare la golden age di Hollywood. Ma basta guardare più attentamente per capire che non è così. C’è per esempio il dramedy “The Friend”, di David Siegel e Scott McGehee, dove la pellicola 35mm spunta come strumento di una fotografia morbida e dal tocco molto classico. Bill Murray e Naomi Watts fanno da catalizzatori, anche se, per il nostro Paese, manca ancora una data precisa di uscita.

Poi c’è “Tornado”, survival thriller di John Maclean (regista di “Slow West”) con Tim Roth e Jack Lowden, girato in 35mm per spingere sul realismo delle ambientazioni naturali e a quanto si dice, su un effetto straniante. Gli esperti di set raccontano di un approccio quasi “antico”, con il regista che preferisce avere pochi ciak ma ben studiati, invece di affidarsi a un accumulo di girato digitale.

Pellicola… e flop: il caso “The Electric State”

Spesso, quando si parla di 35mm, ci si immagina una produzione autoriale benedetta dalla critica. Ma non è sempre così. “The Electric State”, kolossal di fantascienza firmato dai fratelli Russo e distribuito su Netflix, ha suscitato enormi aspettative salvo poi beccarsi giudizi piuttosto duri, per non dire stroncature. Eppure, dietro a questo progetto ambizioso, c’è stata la volontà di sperimentare una combinazione di pellicola Kodak 35mm e riprese digitali. Una scelta ibrida che, se non ha salvato il film dalle recensioni negative, rimane indicativa di come si possa tentare di unire i due mondi senza pregiudizi.

Il “crimine” su 35mm e la fascinazione dell’analogico

Passiamo a storie di rapine e tetti forati. Derek Cianfrance, regista che ricordiamo per “La luce sugli oceani”, sta per lanciare “Roofman”, crime story basata su una vicenda vera: un ex Ranger dell’esercito (interpretato da Channing Tatum) che rapinava ristoranti McDonald’s passando dai tetti. Kirsten Dunst e Peter Dinklage completano un cast decisamente variegato. La notizia curiosa? Si gira in 35mm per restituire un tocco quasi vintage alla storia, che abbraccia contesti urbani e polverosi con un’estetica scura e si spera, avvolgente.

Un tocco di romanticismo con Paul Thomas Anderson

C’è anche Paul Thomas Anderson, che di rullini e cineprese sa davvero qualcosa: “One Battle After Another” è il titolo del suo nuovo lavoro, atteso per agosto, e ispirato – pare in modo molto libero – a “Vineland” di Thomas Pynchon. Il cast riunisce attori del calibro di Leonardo DiCaprio, Regina Hall e Sean Penn, con quest’ultimo nel ruolo di un suprematista bianco. Pare che il direttore della fotografia Michael Bauman, già al fianco di Anderson in “Licorice Pizza”, abbia scelto il 35mm e, secondo alcune indiscrezioni, perfino macchine VistaVision rare. Sembra persino che si sia dovuto attendere il termine delle riprese di “The Brutalist” di Brady Corbet, poiché i modelli di VistaVision funzionanti si contano sulle dita di una mano.

Alleanze produttive e 35mm: Luca Guadagnino e Amazon MGM Studios

Ad affollare i mesi successivi avremo anche “After the hunt”, con la regia di Luca Guadagnino e una distribuzione firmata Amazon MGM Studios. Il cast include Andrew Garfield e Julia Roberts, una coppia inedita che promette scintille. Ancora una volta, dietro le quinte troviamo cineprese a pellicola 35mm, maneggiate dal direttore della fotografia Malik Sayeed. Su questo progetto – un thriller o un dramma, non è del tutto chiaro – filtrano poche informazioni concrete, ma si vocifera di un’ambientazione carica di tensione, valorizzata proprio da quella grana che rende i colori più caldi e le ombre più profonde.

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Wes Anderson e Celine Song: storie e collaborazioni inaspettate

Da un regista Anderson all’altro: Wes Anderson torna con “The Phoenician Scheme”, in uscita a fine maggio, e ci sentiamo di dire che la scelta del 35mm, in collaborazione con il direttore della fotografia Bruno Delbonnel, rappresenti una piccola rivoluzione interna. Anderson finora ha spesso lavorato con Robert Yeoman, mentre qui si affida a Delbonnel (conosciuto per “Il favoloso mondo di Amélie”): c’è un cast da togliere il fiato, tra cui Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera, Tom Hanks, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Jeffrey Wright, Scarlett Johansson, Rupert Friend e Benedict Cumberbatch.

A seguire, troviamo Celine Song, affermatasi con “Past Lives”. Il suo nuovo “Materialist” vede Pedro Pascal, Chris Evans e Dakota Johnson. Anche stavolta, la regista canadese rimane fedele al 35mm, condividendo con il direttore della fotografia Shabier Kirchner il desiderio di creare immagini che lascino il segno, con quella patina di realismo tangibile che il digitale a volte fatica a restituire.

Yorgos Lanthimos e il remake fuori dagli schemi

Infine, uno dei progetti più chiacchierati: “Bugonia”, diretto da Yorgos Lanthimos, è il remake di “Save the Green Planet”, film coreano del 2003 dall’umorismo nero e dai toni surreali. Il cast comprende Emma Stone, Jesse Plemons e Alicia Silverstone. Colpisce la volontà di girare in 35mm con Robbie Ryan (già direttore della fotografia de “La favorita”), per ottenere un effetto visivo molto particolare, a metà tra grottesco e onirico. Abbiamo sentito dire che Lanthimos, con la sua vena sperimentale, riesca a mescolare momenti di crudo realismo con derive quasi fiabesche, come in un sogno febbricitante.

Riprendere fiato: pellicola o digitale non è una guerra

A questo punto, sorge spontanea una riflessione: “Ma allora chi ha ragione?” Nessuno e tutti, forse. Da un lato, il digitale apre strade inimmaginabili, riduce i costi di alcune produzioni, velocizza l’editing. Dall’altro, la pellicola conserva quell’alone artigianale, quell’odore di sostanze chimiche e di rulli che scorrono a velocità costante. Alcuni dei proiettori meccanici in giro per il mondo stanno scomparendo e solo poche sale di nicchia offrono la possibilità di vedere un film in 35mm o 70mm. Esistono ancora, però, posti magici in cui il ronzio del proiettore fa vibrare i sedili.

C’è chi la considera una battaglia persa, un lusso anacronistico. Ma intanto, ogni anno, qualche perla girata su pellicola spunta nelle nomination più importanti o fa rumore al box office. E magari non sarà il formato a rendere un film bello di per sé, ma di certo offre un carattere che il digitale, a volte, non riesce a imitare.

Sguardo al domani (con un piede nel passato)

Se ci fermiamo a pensare, il 2025 non rappresenta un capitolo a sé: è piuttosto una tappa lungo un percorso che vede il cinema in costante trasformazione. Registi, produttori, direttori della fotografia: ognuno si interroga su quale strumento faccia meglio vibrare il racconto. E la risposta, guarda caso, non è mai categorica. Tanti combinano i formati, mescolano 16mm, 35mm, 65mm e digitale, cercando di trovare un equilibrio. L’effetto finale, in molti casi, è un ibrido stilistico che rispecchia l’anima multiforme di quest’epoca.

Ed eccoci qua, a raccontarvi di una serie di film, grandi e piccoli, che in quest’anno si ribellano all’idea che la pellicola sia solo una reliquia. Da un lato, colossi come “Jurassic World – La rinascita” o “The Electric State” (con tutti i suoi contrasti di critica). Dall’altro, progetti più contenuti, come “Tornado”, “The Friend”, “Materialist” e quell’immenso caleidoscopio targato Safdie. E poi ancora Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, Yorgos Lanthimos, Ryan Coogler e Luca Guadagnino, tutti uniti da una stessa fiamma per la pellicola.

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Vorremmo avere la sfera di cristallo per sapere se, in un futuro non troppo lontano, il 35mm continuerà a sedurre le nuove generazioni di registi. Chissà. Può darsi che diventerà una vera e propria rarità, simile a ciò che è successo con il vinile nella musica, sopravvissuto grazie a una nicchia che non vuole omologarsi. Oppure si consoliderà come opzione ibrida, una scelta riservata a chi desidera quell’“effetto vivo” irripetibile.

Nel frattempo, fa piacere vedere quanto la passione non sia soltanto una questione di nostalgia, ma anche di ricerca artistica. Ogni metro di pellicola costa caro e spinge i registi a pensare davvero ogni inquadratura, ogni dettaglio, in modo quasi sacro. E c’è una punta di romanticismo nel vedere come, sotto strati di tecnologia digitale, resista ancora qualcosa di tangibile, di fisico, capace di catturare la luce e restituirla con una specie di calore umano.
Tutto questo per dire che, in un panorama in cui le serie streaming si moltiplicano e le sale devono reinventarsi, la pellicola non molla.

E noi restiamo curiosi di osservare questi nuovi lavori, di farci sorprendere da un formato che credevamo destinato all’oblio, ma che invece risorge, un ciak alla volta, raccontando storie e emozioni con un’energia che nessun pixel riesce ancora a uguagliare. Perché in fondo, che arrivi dal proiettore di un cinema di nicchia o da un mastodontico IMAX, quell’inconfondibile bagliore analogico continua a farci sentire vivi.

Parola dopo parola, fotogramma dopo fotogramma, continuiamo dunque a seguire questo cammino. Pellicola o digitale? A voi la scelta. O magari, a volte, non si sceglie affatto, e si mischia tutto in un unico, avventuroso sussurro cinematografico.



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