Il 2 febbraio 2025 verrà ricordato come la data che segna l’inversione a U della politica di commercio estero degli Stati Uniti. Degli Usa che avevano sostenuto e guidato il processo di apertura del commercio mondiale avviato alla fine della seconda guerra mondiale con i primi Gatt (General Agreement on Trade and Tariffs; Accordo generale sul commercio e i dazi) e sfociato nel 1995 nella costituzione del Wto (World Trade Organization; Organizzazione mondiale del commercio) garante degli accordi multilaterali e deputato a risolvere eventuali conflitti tra i suoi 164 stati membri.
Dalla costituzione del Wto in poi il commercio mondiale, che si attestava nel 1995 attorno al 40% del Pil mondiale, arriva a valerne oltre il 55% nel 2008, che diventa il 51% di oggi dopo gli shock da crisi finanziaria mondiale del 2009-10 e la pandemia da Covid del 2019-21.
Da domenica 2 febbraio 2025 gli Stati Uniti, che già hanno annunciato di voler abbandonare il Wto e il suo multilateralismo, hanno inaugurato la loro nuova politica commerciale fatta di accordi bilaterali basati sui rapporti di forza tra gli Usa e l’interlocutore di turno e raggiunti con il “bastone” dei dazi sul tavolo.
Le cavie di questo nuovo corso sono, tanto per far capire che non ci saranno sconti per nessuno, oltre alla Cina, sui cui prodotti verranno applicati dazi del 10%, il Canada e il Messico, ai quali verranno riservati dazi del 25%; ma solo del 10% sul petrolio e il gas canadese (come richiesto dalle raffinerie americane che hanno bisogno del greggio pesante canadese per mescolarlo con il light crude statunitense) per contenere gli effetti sul prezzo della benzina negli Usa.
Con Messico e Canada, che avevano immediatamente definito misure di ritorsione, Trump ha avviato una trattativa, sospendendo intanto per un mese l’introduzione dei dazi per l’import dal Paese centroamericano. La Cina ha invece reagito annunciando un ricorso al Wto.
Gli effetti negativi di questa “guerra dei dazi” sono certi, per la contrazione degli effetti di sviluppo del commercio mondiale e per l’aumento dei prezzi, quelli Usa prima degli altri. Effetti oggi difficilmente quantificabili perché la partita sarà lunga e caratterizzata da un susseguirsi di mosse e contromosse.
Come deve prepararsi l’Unione europea alla sua guerra dei dazi con l’America di Trump? Studiando bene le reali motivazioni della controparte e sfruttando il fatto che la competenza in materia di commercio è dell’Unione e non dei singoli Stati membri. Se c’è un punto di debolezza nell’approccio di Trump, questo sta nei troppi obiettivi che si vorrebbero raggiungere, quelli dichiarati e quelli non detti.
Negli annunci di Trump troviamo così che i dazi al Messico e al Canada vengono loro imposti per indurli a scoraggiare i flussi di migranti illegali e per combattere il contrabbando di fentanyl, la droga che sta devastando gli Usa; accusa quest’ultima rivolta anche alla Cina. I dazi dovrebbero servire poi per ridurre i deficit Usa nelle bilance commerciali bilaterali, ma anche per convincere le imprese americane delocalizzate in quei Paesi a un pronto reshoring per riportare gli impianti negli Usa.
Ma, detto a mezza bocca, c’è un ulteriore vero obiettivo. Trump ha bisogno di entrate da dazi doganali per riequilibrare i conti pubblici federali in rosso e in via di peggioramento per le spese che saranno necessarie per mantenere le promesse elettorali di deportation di milioni residenti indesiderati e di riduzione al 15% delle tasse sulle società e sul rimpatrio dei profitti conseguiti all’estero dalle “povere” multinazionali americane.
Tra i prevedibili effetti dei dazi Usa sull’inflazione americana, di quelli che colpiranno le esportazioni americane per rappresaglia e la possibilità che si inducano gli interlocutori a dirottare i loro prodotti su altri mercati, il potere negoziale degli Usa di Trump non è poi così elevato e granitico.
Dall’altro lato, quello europeo, ci troviamo, almeno in questo caso, a disporre di un prezioso “capitale istituzionale”: il fatto che la competenza sul commercio estero sia, a termini dei trattati europei, di competenza esclusiva dell’Ue e non dei singoli Stati membri. Un capitale che sta alla Ue mettere a frutto.
Esso consente infatti alla Ue di negoziare dall’alto di un volume di importazioni europee dagli Usa, sulle quali potrebbero abbattersi dazi europei di rappresaglia, pari al 15% del totale delle esportazioni statunitensi.
Una quota di mercato non molto diversa da quella (20%) che gli Usa rappresentano per le esportazioni extra-Ue dell’Unione. Se questo verrà fatto valere, se gli Stati membri non cadranno nella trappola del divide et impera che i negoziatori americani cercheranno di stendere, se gli Stati membri comporranno i loro legittimi diversi interessi “dentro” le istituzioni europee prima di confrontarsi unitariamente con quelle americane, se l’Ue si controassicurerà aprendosi maggiormente ai mercati asiatici in forte espansione, la guerra dei dazi può addirittura trasformarsi in un “rito di passaggio” verso la maturità dell’Unione europea, della cui presenza unitaria sulla scena mondiale i cittadini europei, e quelli italiani fra loro, hanno urgente bisogno.
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