Bob Marley 80. Polvere, povertà e sogni. La leggenda del reggae col cuore in Giamaica

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Kingston (Giamaica), 4 febbraio 2025 – La foto rubata nel giugno 1980 all’euforia sudata degli ottantamila di San Siro (o centomila come riportavano trionfalmente i titoli di giornale) è usurata. Troppe dita sono passate su quel ritaglio che ingiallisce accanto alle altre decine incollate sul muro della casa-museo di Bob Marley a Kingston. È la parete dedicata al tour di Uprising, l’ultimo portato nel cuore di Babilonia dell’eroe coi dreadlocks nonostante il peso sull’anima di quel melanoma acrale che da tre anni non gli dava pace e che meno di un anno dopo quel trionfo italiano l’avrebbe strappato per sempre alla devozione dei fan. Oltre la soglia della stanza, l’amaca su cui il re del reggae trascorreva i suoi momenti di relax ondeggia mesta davanti a finestre che si aprono un angolo di Jamaica rubato al tempo.

Giovedì prossimo Robert Nesta Marley avrebbe compiuto ottant’anni, ma il calendario di un’esistenza spesa tra chitarre, ganja (marijuana) e palloni da calcio, certezze di una vita sepolte con lui nel mausoleo senza nome di Nine Mile assieme ad una Bibbia aperta sul salmo 23, s’è fermato a quell’11 maggio 1981. Bob avrebbe voluto andarsene tra le palme, le eliconie e gli ibiscus di questa terra, ma il ritorno dalla Germania dopo cinque mesi di terapie e (inutili) speranze nella clinica bavarese del controverso professor Joseph Issels, indusse gli accoliti a deviare il volo su Miami per affidarlo all’abbraccio del suo dio, Jah, nuovamente mortale tra i mortali, in una camera del Cedar of Lebanon Hospital.

Oltre sessantamila visitatori all’anno dicono che questa villa in stile coloniale britannico del XIX secolo al 56 di Hope Road, nell’esclusiva zona residenziale di Liguanea, è ancora il centro del suo mito. Di quella fede nel ritmo inteso come fonte di gioia, di vita e di rivoluzione, professata pure da Barack Obama una decina di anni fa aggirandosi in queste stanze a margine di una visita ufficiale, avviata dall’uomo delle Rastaman vibration il 17 luglio 1975 sul palco del Lyceum Ballroom di Londra con le registrazioni di quel Live! che l’avrebbe imposto ovunque con la forza Get up stand up, No woman no cry o quella I shot the sheriff incisa pure da Clapton in 471 Ocean Boulevard. Il resto è storia.

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Siamo nella “città alta” e il complesso dove Marley registrò la sua musica dal 1975 alla morte gli fu regalato da Chris Blackwell, padrone della Island Records e suo produttore. In strada il caldo si fa sentire, ma in casa la memoria è conservata a 17° come ricordano i led azzurri dei condizionatori che ronzano nel silenzio irreale in cui sono sprofondati abiti, dischi d’oro e di platino, l’Order of Merit conferitogli dal governo giamaicano, foto virate ocra del Negus, Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia, “King of Kings”, divinità per i rastafari frutto del loro orgoglio panafricano, ma anche di venerati compagni di strada sopra e sotto al palco come Bunny Wailer, Pete Tosh, o il bassista Aston “Family Man” Barrett, divenuto per sua ventura padre di 55 figli. Vietato fotografare, per non meglio specificate questioni di copyright, anche se all’occhio elettronico del cellulare o della fotocamera sarebbe difficile strappare quei cimeli alla leggenda da cui sono ammantati.

Nel retro della casa il 3 dicembre 1976 fece irruzione un commando armato che cercò di uccidere il grande sciamano coi suoi ideali di giustizia ed emancipazione per bruciare nell’odio il processo di riconciliazione avviato dal primo ministro Michael Manley, a cui Bob avrebbe dovuto dare il proprio contributo tre giorni dopo sul palco di “Simile Jamaica” il concertone pacificatorio organizzato dal Pnp, il partito popolare dello stesso premier. I fori dei proiettili sparati all’impazzata contro di lui, la moglie Rita, il manager Don Taylor, sono ancora lì nel retro della casa, tetri e inutili, visto che il giovane messia, l’apostolo di Jah, l’incantatore con la Les Paul salì comunque sul palco del National Heroes Park e i sette attentatori di lì a poco furono trovati morti ai quattro angoli dell’isola, annegati nel sangue dell’offesa portata alla divinità.

Per l’anniversario è in programma un progetto discografico, anche se l’anima delle sue canzoni non sta nel mausoleo di Nine Mile, in quella sepoltura da faraone nel sarcofago di marmo senza nome sprofondata nella giungla a 90 chilometri da qui, e meno che meno nel villone-santuario di Hope Road, o nei prediletti studi di registrazione Tuff Gong, ma tra la polvere, i cani randagi, la povertà, le fogne a cielo aperto, i rifiuti di plastica, la speranza ridotta a lumicino di Trenchtown, il ghetto in cui Bob crebbe e partì alla conquista del mondo, immortalandolo in inni come No Woman No Cry o quella Trenchtown Rock che dice: “L’aspetto positivo della musica è che quando ti colpisce non provi dolore”. Difficile dargli torto.



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