Esistenze in bilico tra rifiuto e solidarietà

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Quando, nel 1980, il futuro premio Nobel per la letteratura J. M. Coetzee pubblicò Aspettando i barbari, uno dei suoi romanzi più noti, in molti tra critici e lettori vollero vedere nella storia descritta un’allegoria della realtà sudafricana che annunciava la fine del regime dell’apartheid, sopraggiunta, nei fatti, alla fine del decennio. Quel libro traeva in realtà ispirazione da una poesia dall’analogo titolo di Costantino Kavafis, scritta nel 1904, che si interrogava su quanto, nell’allarme per l’arrivo dei «barbari» alle frontiere, vi fosse in realtà di ricerca di senso, oggi diremmo forse di bisogno di «identità», delle popolazioni coinvolte. Per Coetzee, il quesito si poneva dentro un fortino ubicato ai confini dell’impero e immerso in un clima di crescente preoccupazione per il timore di un’invasione da parte delle popolazioni indigene vicine: allarme che si sarebbe rivelato falso.

AL TERMINE di Umanità in esilio (traduzione di Lorenzo Alunni, Feltrinelli, pp. 398, euro 25), l’antropologo e medico Didier Fassin e la sociologa Anne-Claire Defossez, si interrogano su quanto oggi quella storia possa rappresentare un’allegoria dell’intera Europa, dominata da una torsione xenofoba che fa della presenza dei migranti il catalizzatore di ogni sorta di malcontento, ansia e paura presenti nella società. Sulla scorta di questo confronto, Fassin e Defossez arrivano a chiedersi in che misura la metafora evocata da Coetzee può aiutarci a leggere il nostro tempo, per pensarlo per quello che è, ma anche «per immaginarlo in modo diverso».

Nella loro appassionata indagine sulla frontiera alpina, il confine montano tra Francia e Italia diventato uno dei luoghi di passaggio per uomini, donne e bambini che fuggono guerre e povertà per raggiungere l’Europa, gli autori non raccontano soltanto la militarizzazione della zona, trasformatasi negli anni in una sorta di «vetrina dell’intransigenza dello Stato», ma anche dello sviluppo di un movimento solidale, di «resistenza» nei confronti delle politiche repressive adottate, che, per limitarsi alla sponda francese delle Alpi – oggetto dello studio -, che domina la cittadina di Briancon, ha coinvolto attivisti e volontari, gestori dei rifugi solidali, famiglie ospitanti o che hanno occupato edifici poi aperti ai migranti, membri di organizzazioni che difendono i diritti degli esuli e aiutano i minori stranieri non accompagnati, ma anche il parroco e il vescovo della diocesi.

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FRUTTO DI UN LAVORO condotto letteralmente «sul campo» per diversi mesi l’anno nel corso di oltre cinque anni, nel senso che Fassin e Defossez non hanno solo attraversato gli stessi passi e sentieri dei migranti, ma hanno preso parte alle azioni di solidarietà e sostegno a questi ultimi, Umanità in esilio rappresenta un tentativo concreto di costruire «un’etnografia del confine», offrendo, attraverso l’inchiesta di un contesto specifico, uno strumento per riflettere su cosa questa realtà racchiuda in termini più generali. Grazie a più di duecento interviste che hanno coinvolto le persone che stavano cercando di attraversare il confine, gli attivisti e in misura minore gli addetti delle forze dell’ordine, poliziotti e gendarmi, spesso restii o del tutto contrari ad intavolare una qualche forma di confronto con i ricercatori, il libro illustra come «la frontiera si insinua nel corpo delle persone», dando forma ad una realtà a due dimensioni. Se nella zona di uno dei passi alpini, Monginevro, il giorno si scia e si gioca a golf, dopo il tramonto sono le ombre dei migranti ad attraversare le piste da sci e i campi da golf deserti, «prima di scomparire nelle foreste inospitali, con il rischio di cadute e lesioni».

Al centro del racconto emergono, a decine, le storie e le vite di quanti sfidano la montagna e i gendarmi per cercare di raggiungere un luogo che spesso rappresenta solo una tappa intermedia per un viaggio ancora più lungo, per ricongiungersi con parenti che vivono in Gran Bretagna, in Germania, in Scandinavia. Persone che prima di quel momento hanno già sofferto e patito situazioni simili o ancor peggiori. Come la famiglia iraniana, padre, madre incinta di otto mesi e un figlio di nove anni che ha tentato per ben quattro volte di varcare la frontiera prima di riuscirci, venendo ad ogni occasione respinta dagli agenti: niente in confronto ai ventisei tentativi che ci sono voluti per superare la Bosnia, dove erano stati picchiati, insultati, umiliati e l’uomo anche privato delle scarpe.

DA QUESTI INCONTRI, gli autori traggono non solo informazioni su ciò che i protagonisti hanno vissuto o dovuto subire, ma anche elementi preziosi sul significato che attribuiscono alle proprie esperienze. Per questo, Fassin e Defossez scelgono di parlare di «esilio» a proposito dei veri protagonisti della loro indagine: termine che racchiude «sia l’allontanamento forzato, sia un viaggio indefinito». La nozione di «esiliati», in questo senso, racchiude l’insieme delle diverse esperienze migratorie, le difficili partenze come gli ancor più sofferti arrivi. Fino a definire, come concludono gli autori, uno dei segni distintivi del nostro tempo. L’esilio «come forma di vita contemporanea, in bilico tra il potere dell’esclusione e il desiderio di solidarietà».



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