La tutela della concorrenza si adatta ai cambiamenti geopolitici, economici e sociali. Oggi alla disciplina tradizionale si affiancano nuove regole, come quelle sui mercati digitali. Ma in Europa non possono diventare uno strumento di politica industriale.
I due valori su cui si fonda il modello europeo
C’è un filo robusto che lega il manifesto franco-tedesco sulla nuova politica industriale, il rapporto Letta, il rapporto Draghi, gli indirizzi programmatici della Commissione europea per il quinquennio 2024-2029 e la lettera di missione della presidente von der Leyen alla Commissaria europea per la concorrenza Ribera. È l’idea che il diritto antitrust, così come sinora concepito, non sia più adatto allo spirito dei tempi e debba essere profondamente rinnovato. La politica di concorrenza è tra i principali accusati dei ritardi europei in termini di crescita e produttività: avrebbe impedito alle imprese degli stati membri di raggiungere dimensioni sufficienti per competere con le imprese americane e cinesi e così di espandersi nei mercati globali.
La questione della modernizzazione dell’antitrust non può però essere circoscritta al singolo aspetto della necessità di difesa dei campioni europei, ma deve allargarsi in modo tale da permettere di coglierne tutta la complessità.
Nell’immediato secondo dopoguerra il mercato comune concorrenziale è stato la risposta dei leader europei occidentali ai pericoli del nazionalismo politico, che veniva contrastato erodendone le basi economiche. Democrazia liberale ed economia di mercato aperta sono così divenuti i pilastri del modello europeo occidentale. Per lungo tempo la concorrenza ha rappresentato un valore dominante in Europa, e di conseguenza non ha subito freni motivati da altre esigenze di natura economica, quali le considerazioni di politica industriale.
Ma la tutela della concorrenza è sensibile ai mutamenti geopolitici, economici e sociali, e così sta utilizzando la sua capacità camaleontica per adattarsi alle profonde trasformazioni di contesto.
Nuove normative a tutela del mercato
La nascita di una disciplina ad hoc per i mercati digitali (Digital Markets Act) è motivata dalla debolezza dimostrata dal classico strumentario antitrust in settori così peculiari. La guerra legale da anni intrapresa dalla Commissione e dai giudici eurounitari contro i colossi tecnologici statunitensi ha spesso rappresentato una reazione lenta e tardiva alle condotte anticoncorrenziali. L’ineffettività del diritto è temibile in ogni caso, ma lo è ancor di più nel caso delle grandi imprese digitali, che hanno acquisito un’influenza che eccede la loro pur gigantesca forza economica.
Di qui, la trasformazione in senso adattativo dell’antitrust: il Dma stabilisce una serie di obblighi in capo ai cosiddetti gatekeepers, indipendentemente dall’accertamento di comportamenti anticompetitivi, ma solo in virtù della loro posizione di particolare forza sui mercati digitali.
La torsione del paradigma tradizionale potrebbe generare perplessità, dovute al pericolo di condurre l’antitrust in ambiti regolatori, se non addirittura di tipo redistributivo. Sullo sfondo si pone il secolare dibattito, probabilmente destinato a non sopirsi mai, sui fini ultimi della disciplina antitrust e, più in generale, sulle diverse concezioni di concorrenza. La metamorfosi dell’antitrust incarnata dal Dma genera poi un’ulteriore criticità e cioè un eccesso di regole, talvolta minuziose, non sempre agevolmente ricostruibili, né chiaramente coordinate con la normazione antitrust tradizionale.
Nondimeno, gli adattamenti dell’antitrust nei mercati digitali soddisfano l’esigenza di fronteggiare i nuovi sofisticati poteri privati con uno strumentario giuridico altrettanto sofisticato. Il potere di mercato diviene di per sé fonte di speciale responsabilità giuridica e l’antitrust accompagna questo processo nel settore dei mercati digitali.
Concorrenza e competitività
Diverso è invece il discorso per quanto riguarda la seconda trasformazione che la tutela della concorrenza attraversa, dovuta al suo rapporto con la politica industriale.
Di recente, hanno preso sempre più consistenza obiettivi di politica industriale per favorire produttività e crescita dimensionale delle imprese europee. Tra gli strumenti reputati necessari per il raggiungimento del risultato vi è il rinnovamento dell’antitrust, considerato in parte responsabile della perdita di competitività europea.
Con l’ammorbidimento – in parte già in atto, in parte auspicato – della disciplina sugli aiuti di stato e sui divieti anticoncorrenziali si aderisce a una concezione non complementare, ma antagonista tra antitrust e politica industriale, che, a sua volta, sottende un’antitesi tra concorrenza e competitività. Il potere di mercato diviene oggetto non di speciale responsabilità, bensì di speciale protezione giuridica, la dimensione delle imprese è incoraggiata, perché ritenuta fattore incentivante l’innovazione e quindi il benessere di tutti.
L’inefficienza delle strutture produttive dipende però da fattori diversi dalle politiche antitrust tradizionali: dipende infatti dall’incompleta attuazione del mercato unico e dai tanti vincoli normativi e amministrativi che affliggono le imprese. Ma soprattutto l’asservimento dell’antitrust a obiettivi di politica industriale rischia di generare una frammentazione distorsiva del mercato interno, di legittimare gli stati membri ad agire in ordine sparso sulla base di una competizione di cui potranno beneficiare solo quelli più forti finanziariamente.
L’esito ultimo è la negazione dell’iniziale paradigma della tutela della concorrenza, che nasce in ambito europeo proprio per realizzare un progetto d’integrazione. La capacità camaleontica di adattamento dell’antitrust non deve spingersi fino a farne smarrire il nucleo essenziale.
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