Riprendiamo DAVIDE GRASSO (*) da “Micromega”. Ovviamente le sue opinioni sono importanti, vista la conoscenza della Siria maturata durante la sua esperienza nel Rojava (magari un po’ meno sull’Ucraina e sulla cosiddetta “resistenza” dei nazionalisti ucraini). A seguire una nota dalla pagina Instagram di Devrim Akcadag.
Quando Assad ha lasciato la Siria, lo scorso 8 dicembre, in tanti hanno festeggiato. Non mancavano le preoccupazioni per ciò che sarebbe accaduto, ma è prevalsa, giustamente, la contentezza per un’apertura possibile e, per molti, la possibilità di lasciare le prigioni, tornare nelle proprie città, esprimere il proprio pensiero ad alta voce o, semplicemente, respirare, piangere di commozione, rientrare nel paese. La propaganda dei sostenitori del regime deposto, attiva soprattutto all’estero, ha cercato di far passare la sconfitta del Baath per una catastrofe, e l’identificazione di chiunque non mostrasse contrizione come un “jihadista” o un sostenitore del jihadismo. Se il rigetto di questo tentativo è la base e il principio per ogni discussione empatica e realistica sulla Siria futura – e, in controluce, su cos’è oggi una prospettiva rivoluzionaria nel mondo – è altrettanto cruciale la consapevolezza che è (sempre) necessario mantenere vigile la critica, e verso più di un fenomeno politico allo stesso tempo.
Come le battaglie contro big Pharma non dovrebbero implicare il boicottaggio di campagne vaccinali inevitabili durante una pandemia, infatti – o il sostegno alla resistenza ucraina non dovrebbe tradursi in un sostegno politico per le oligarchie al potere nel paese – così il riconoscimento del severo giudizio storico emerso verso le componenti degenerate e corrotte del nazionalismo baathista non dovrebbe indurre a sottovalutare gli atti delle forze che hanno instaurato una nuova autorità su Damasco. Al-Jolani aveva affermato, a inizio dicembre, che il suo movimento avrebbe stupito il popolo siriano, mostrando come i timori verso un «ordine islamico» fossero frutto di fraintendimenti o di scorrette applicazioni passate di questo concetto. Affermazioni abbastanza audaci da attrarre meritata attenzione e da essere necessariamente prese sul serio, in attesa di azioni politiche che le sostanziassero. Io stesso proposi di giudicare il gruppo non in base ai suoi precedenti (che pure non devono essere mai dimenticati), ma in base alle nuove azioni.
A un mese e mezzo di distanza è evidente che, se obiettivo di HTS era mostrare che l’islamismo è compatibile con il rispetto per le persone, per la cultura e per le donne, la giustizia sociale e la costruzione di un percorso istituzionale animato da una decenza minima nel rapporto con le diversità, i dissidenti e i prigionieri, l’obiettivo è fallito su tutta la linea. L’evoluzione della situazione siriana dimostra nuovamente, dopo sole sei settimane, che la paura e il disgusto che covano o si esprimono in gran parte della Siria – e del mondo musulmano – verso i movimenti islamisti nulla ha a che fare con una presunta e improbabile “islamofobia” ma con fatti nudi e crudi che è impossibile ignorare. L’ordine islamista viene quindi o nuovamente scorrettamente applicato oppure, malauguratamente, ancora frainteso da tanti, troppi comuni mortali.
Colpo di mano e riconoscimento esterno
Al-Jolani persiste in una ormai stantia dichiarazione di volontà di dialogo con tutte le “minoranze”, intese in un depoliticizzato senso etno-culturale che mira a rimuovere la sostanza politica dei problemi sul piatto. HTS è d’altra parte di per sé una minoranza politica che ha deciso, forte del sostegno turco, delle monarchie del golfo e atlantico, di agire come se non fosse tale. Anziché permettere al primo ministro Al-Jalali in carica a inizio dicembre (come inizialmente annunciato) la possibilità di formare un governo di transizione scevro da rappresentanti del Baath ma composito, Jolani ha trasferito nella capitale direttamente il governo monocolore che la sua organizzazione aveva imposto alla popolazione di Idlib dal 2017. La Siria si è trovata così ad essere governata da una compagine salafita senza dubbio forte e influente nel panorama delle opposizioni, ma lungi dal poter essere rappresentativa del quadro socio-politico complessivo delle forze estranee al passato. Nell’attuale processo costituente il governo transitorio mostra inoltre diverse ambiguità: l’incertezza sulla sua durata, la natura del processo costituzionale annunciato e la collocazione esatta della sovranità transitoria.
Jolani ha dichiarato a dicembre che i poteri del suo personale esecutivo sarebbero durati tre mesi. Non è chiaro però cosa seguirà, se è vero che a fine mese ha affermato anche che la celebrazione di elezioni potrebbe non avvenire prima di quattro anni. Ha più volte lasciato intendere nelle sue interviste, in secondo luogo, che la costituzione non sarà scritta da un’assemblea costituente eletta, ma da un gruppo di “esperti”; termine che naturalmente non vuol dire nulla, a meno che non si intenda – nella tradizione politica di HTS – dottori della giurisprudenza islamica selezionati su base ideologica dal movimento e dai suoi alleati controllati dalla Turchia (una base ideologica e giuridica estranea alla maggioranza della popolazione, anche credente e sunnita).
Non è un caso che le prime grandi manifestazioni contro l’atteggiamento del nuovo governo siano state organizzate dalle associazioni femminili arabe, che hanno reagito alle dichiarazioni secondo cui le donne non sarebbero adatte a ricoprire tutti i ruoli esistenti nella società. La risposta di Aisha Al-Dibs, prontamente appuntata come dirigente di un ufficio per gli affari femminili nel governo (e unica donna nell’esecutivo), non ha fatto che aumentare (e rivelare) i problemi: ha affermato che le donne devono preoccuparsi in primo luogo dei loro mariti e figli, che non vi sarà spazio per il femminismo in Siria e che la porta resterà chiusa per tutte le visioni in disaccordo con la sua (sic).
Resta infine il problema della posizione di HTS nell’architettura istituzionale della transizione. Il parlamento è stato sospeso, lo scranno del presidente è vacante: il Comando delle operazioni militari, organo di HTS che ha formato il governo, ha avviato un processo di unificazione dei gruppi armati islamisti nel paese. Al-Jolani dirige questo organo ed è quindi un esponente di partito che non fa parte dell’esecutivo. D’altra parte, presiedendo l’entità che ha formato il governo e gli ha dato operatività, e che sta costituendo un esercito, è il depositario della sovranità effettiva, ed è effettivo capo dello stato là dove lo stato esercita un controllo territoriale. Con lui, non a caso, si relazionano i rappresentanti degli altri stati. Governi come quello italiano, che hanno riconosciuto nei fatti questa autorità con la visita di Tajani del 10 gennaio, considerano quindi un processo di questo tipo (che non era affatto l’unico possibile) come legittimo (e da legittimare esternamente). Sul piano interno, tuttavia, l’esclusione di tutte le altre forze di opposizione dal governo di transizione si qualifica come un colpo di stato dentro la rivoluzione o contro la rivoluzione possibile.
L’incontenibile pesantezza di una mentalità suprematista
Per ottenere questa precipitosa legittimazione, di cui il governo afghano dei Taliban non ha ad esempio usufruito (avendo rovesciato un governo sostenuto dalla Nato, e non da Iran e Russia), una figura che è giunta al potere coltivando il mito dell’abbattimento delle Twin Towers e delle stragi irachene di sciiti come Al-Jolani non ha dovuto mostrare l’annunciato rispetto per minoranze, neanche cristiane. Il 25 dicembre l’incendio dell’albero di Natale tradizionalmente costruito in piazza dalla comunità cristiana ad Hama è stato seguito dalla diffusione del video della profanazione di un luogo di culto alawita ad Aleppo. Le proteste delle minoranze religiose che ne sono seguite sono state represse con l’invio di centinaia di veicoli di HTS nelle città e nei villaggi, che hanno scatenato il terrore. L’operazione è stata giustificata come atto repressivo contro poliziotti o militari di Assad manovrati dall’Iran, iniziando le litanie delle paranoie complottiste che, c’è da crederlo, farà invidia a quella del Baath. Questa versione, ripresa dagli organi d’informazione globale della Fratellanza musulmana come Al-Jazeera o del governo turco come Al-Monitor, non è stata tuttavia corroborata da nessun documento o prova, e ha mascherato nei fatti il primo pogrom in grande stile della Siria sottoposta all’egemonia islamista.
I video circolati su Telegram e X, peraltro, non hanno mostrato isolati episodi di rabbia sfociati in esecuzioni sommarie, ma un’operazione di massa, preordinata e organizzata, in cui nuovi poliziotti con il dito indice alzato (saluto politico di HTS, ma anche di Daesh) non sembrano in grado di effettuare arresti senza offrire lo spettacolo di uccisioni di gruppo con colpi alla nuca sul marciapiede, decapitazioni e torture, tra cui l’obbligo per gli arrestati di strisciare per terra o di abbaiare come cani; o fedeli cristiani, nel villaggio aramaico Maloula, obbligati a inginocchiarsi e umiliarsi di fronte a nuovi “conquistatori”. Comportamento da rivoluzionari? Un’istituzione, tanto più se pretende di costituire un elemento trasformativo, si definisce anche dal modo è in grado di trattare i propri nemici, soprattutto se sconfitti, e se conduce contro di essi un’operazione organizzata. Quale sia l’idea di trasformazione è stato chiaro con le direttive immediatamente successive per la riforma dei curriculum scolastici e dei libri di testo, dove si prevede siano censurati riferimenti al “passato politeista della Siria” (sic) e ad elementi filosofici e religiosi considerati distanti dal (corretto intendimento del) messaggio divino.
Gli stati e noi (o logiche diverse di riconoscimento potenziale)
Nonostante tutto questo Stati Uniti ed Europa, con Germania e Italia in testa, hanno lasciato intendere che l’apertura al mercato annunciata dall’esecutivo e realizzata con la prima partecipazione storica della Siria governata dall’islam “politico” al WTO di Davos è più che sufficiente per chiudere tutti e due gli occhi sulle atrocità commesse e su quelle a venire. Non a caso i media europei, a partire da quelli italiani, non stanno più parlando della Siria e nessuno di questi crimini è stato dovutamente raccontato e contestualizzato. Mentre i pogrom di Natale avevano luogo, Repubblica e Ansa plaudivano a presunti sequestri di droga dei fedeli di Al-Jolani, accuratamente esibiti a beneficio di una stampa occidentale che non saprei se ingenua (a dir poco) o in malafede. Anche in taluni ambiti politici e accademici non manca chi reagisce con sorpresa a qualsiasi commento scandalizzato su questi fatti – quasi che giudicare HTS per quello che è significhi coltivare nostalgie per Assad e il suo sistema.
Ciò che più è grave è che l’alternativa esiste. Nessuno, tuttavia, la conosce per l’assenza di ricerca e informazione, o la vuole (ri)conoscere negli apparati statali. La legittimità del nuovo regime trova infatti sul piano interno il principale ostacolo nel convitato di pietra del processo transitorio: quella parte di Siria (circa un terzo) che rimane fuori dal controllo dello stato ed è governata da organi legislativi ed esecutivi diversi: l’Amministrazione democratica autonoma (DAA) che controlla la maggior parte delle risorse agricole ed energetiche del paese. Fondata su un sistema di consigli e cooperative socialiste ed ecologiche, dove le donne si sono conquistate autorità e autonomia, dispone di un esercito il cui numero di effettivi è stimato in 80.000 tra donne e uomini. Il fuorviante gergo giornalistico nostrano si riferisce a questa istituzione come “i curdi”, ma l’Amministrazione e le sue forze militari sono formate da siriani che, come nel caso degli altri gruppi emersi dalla guerra rivoluzionaria, si identificano in parte come curdi (molti in questo caso), ma in maggioranza come arabi. A questa pluralità linguistica, espressa anche nei suoi simboli e documenti ufficiali, corrisponde una coerente pluralità religiosa e di genere – e una disponibilità al dialogo politico di cui HTS (che pure ne è tra i destinatari) si sta confermando incapace.
La speranza di Al-Jolani è che la Turchia distrugga la DAA con una vasta operazione di aria e di terra che in parte è cominciata lungo l’Eufrate, dove Ankara sta cercando di sfondare da dicembre presso la diga di Tishrin per raggiungere Kobane, sempre nel silenzio internazionale. L’aviazione turca ha bombardato i cortei di migliaia di civili che hanno raggiunto la diga per dimostrare la loro indisponibilità ad accettare un futuro dispotico, neoliberale e oscurantista, ma neanche questo è bastato a fare breccia tra gli stessi giornalisti che idolatravano in modo spesso caricaturale la resistenza di Kobane dieci anni fa. Al-Jolani e Erdogan contano sul probabile disimpegno militare dell’amministrazione Trump: come sempre i movimenti suprematisti – bianchi o islamici che siano – mostrano funzioni speculari e complementari, e un’analoga volontà di dominio capitalista e patriarcale che conduce alla distruzione del pianeta e delle possibilità, che sarebbero sempre attuali in Siria e altrove, di intesa pacifica e giustizia sociale.
Occorre quindi prendere posizione politicamente, denunciando nel mondo della comunicazione e della cultura che non esiste una nuova Siria dopo l’8 dicembre, ma almeno due Sirie: una al momento nera e teocratica, dove una minoranza politica rafforza un colpo di stato strisciante grazie al sostegno dei mercati e degli stati occidentali, e una multicolore e secolare, sebbene non fanaticamente secolarista, che non sembra avere appoggi futuri se non quelli di chi produrrà analoghe rivoluzioni nel mondo. Analoghe rivoluzioni non arriveranno presto, ma se gli stati riconosco la prima Siria, è nella nostra libertà individuale e collettiva decidere di offrire un riconoscimento politico alternativo alla seconda con la voce, la mobilitazione, il viaggio o la scrittura – almeno fino a quando una Siria davvero “nuova” non sarà frutto dell’inclusione e della libera decisione di organi democraticamente scelti.
* https://www.micromega.net/nuova-Siria
Intanto, dal Rojava
Kobane, 26.01.2025 10° liberazione
“Vogliamo che il cambiamento sia la base per una nuova fase in Siria” Mazloum Abdi
“Il nostro obiettivo è presentare un fronte curdo unificato nelle discussioni con Damasco. Nei prossimi giorni incontreremo partiti e forze curde per prepararci a una visita congiunta a Damasco”, ha dichiarato Mazloum Abdi.
Mazloum Abdi, comandante in capo delle forze democratiche siriane (SDF), martedì ha dichiarato che l’obiettivo dei gruppi curdi in Siria è presentare un fronte curdo unificato nelle discussioni con Damasco.
In un’intervista completa, con l’Agenzia di stampa Hawar, talvolta abbreviata ANHA, legata all’Amministrazione Autonoma della Siria settentrionale e orientale (AANES) e alle sue forze armate (SDF), Abdi ha discusso le sfide e le opportunità che il paese deve affrontare, con particolare attenzione alla Siria nord-orientale, conosciuta anche come (Rojava). https://www.instagram.com/p/DFfjzcyo_jF/
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