evocare il fantasma delle urne

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La premier posta i sondaggi che danno FdI in crescita: c’è la tentazione delle elezioni anticipate. Ma l’ambizione di finire la legislatura e la paura di Mattarella rendono la strada poco percorribile

Fanno finta di nulla ma ci pensano tutti, e qualcuno anche nella maggioranza a pensarci si incupisce un po’. Non i parlamentari di Fratelli d’Italia che dopo la direzione di partito, lasciando il centro congressi Roma Eventi, fanno spallucce: «Elezioni anticipate? Noi non abbiamo mai paura di misurarci con gli italiani». Il disegno è sul tavolo di Giorgia Meloni da diverso tempo «per rimotivare il paese». Tradotto: ottenere un sostegno ancora più robusto, portare avanti senza intralci le riforme di Fratelli d’Italia. Uno strategico reset per la prossima primavera. Una bella tabula rasa di ciò che s’è tessuto sin qui.

Un indizio lo lascia cadere la stessa premier sui suoi profili social postando una slide che evidenzia una cifra: 30,1 per cento, la percentuale attribuita a Fratelli d’Italia dalle rilevazioni fatte da Youtrend per Agi nell’ultima settimana. «Non guardo spesso i sondaggi», scrive, «tuttavia, è difficile non notare un dato: nonostante gli attacchi gratuiti quotidiani e i tentativi di destabilizzare il governo, il sostegno degli italiani rimane solido».

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Del resto 2022 FdI ha ottenuto il 26 per cento, mentre alle Europee dell’anno scorso è stato l’unico partito in crescita rispetto al 2019. Secondo i dati Youtrend, la compagine guidata da Giorgia Meloni alle elezioni europee ha guadagnato cinque milioni di voti, raggiungendo un totale di 6,7 milioni di preferenze. Cinque anni fa, ne aveva ottenute solo 1,7 milioni. L’ipotesi delle urne è una “pistola” che lascia in bella vista per gli alleati e non solo, il problema è che è una trappola.

La strategia

Con un consenso stabile, è il ragionamento dentro via della Scrofa, nulla di più salutare che far crollare il governo. Altro che “complotto”: fare piazza pulita al momento più opportuno e non per dissidi interni della maggioranza ma tra i poteri. Più consenso elettorale vuol dire un peso maggiore sull’elezione del prossimo capo dello Stato (prevista nel 2029) e un incremento della propria pattuglia parlamentare.

Con i Cinque stelle ancora più deboli, il centrosinistra in fase di riorganizzazione (soprattutto attorcigliata dall’ultimo “lodo Franceschini” per un campo largo senza coalizioni) e una maggioranza di governo che non sembra destinata a fare chissà quale riforma rivoluzionaria, il richiamo delle urne, che Meloni ha sempre sentito piuttosto forte, aumenta.

Diventa l’unica vera arma che può mettere sul tavolo: per imporre la sua linea anche a costo di rimetterci la poltrona. Anzi mettendo all’incanto proprio la sua poltrona e alzando sistematicamente il prezzo in termini di decisioni, di riforme, di provvedimenti.

Un’arma scarica

Ma è un’arma scarica, per tre ragioni. L’ambizione suprema della leader di Fratelli d’Italia: governare per cinque anni, cioè tutta la legislatura. Obiettivo dichiarato più volte, come quando respinse l’idea di possibili dimissioni in caso di bocciatura della riforma costituzionale che introduce il premierato: «Non mi fa paura l’idea del referendum e non lo considero un referendum su di me. Lo considero un referendum sul futuro dell’Italia».

C’è poi la sfiducia e la paura. Mica delle toghe rosse, quella è propaganda. Paura degli alleati e ossessione di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica è l’unico che può sciogliere le Camere e mandare il paese al voto, l’unico che può pensare al “dopo” e muoversi con felpata autonomia.

L’incubo di Meloni è proprio questo il rischio che possa sostituire «un governo democraticamente eletto che sta facendo il suo lavoro e una solida maggioranza» con un «governo tecnico non eletto da nessuno». Va da sé che il presidente della Repubblica ha sempre portato avanti scelte guidate dalla Costituzione vigente e non un calcolo numerico, optando per il partito con la maggioranza relativa.

Il fronte interno

La terza questione è interna porta nome e cognome: Matteo Salvini e Antonio Tajani. Meloni da tempo si porta dietro è il problema di vincere ma non stravincere, nella sua stessa metà campo: umiliare il compagno di gara esaspera di risentimento e lo porta poi a fare i dispetti in casa. La Lega ne ha già dato prova dopo i distinguo dei mesi scorsi sull’Ucraina, le tensioni sul candidato del centrodestra per le regionali in Veneto, l’uscita dall’Oms.

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L’ultimo fronte nella maggioranza di governo è stato aperto sul ruolo delle Soprintendenze. Dove il Carroccio ha presentato e poi ritirato il suo emendamento al decreto Cultura che aveva come obiettivo quello di “limitare” il potere delle Soprintendenze rendendo non più vincolante il loro parere sulle opere in zone sottoposte alla tutela paesaggistica. Forza Italia invece spinge il partito a bocciare la riduzione del canone Rai, avanza proposte sullo ius scholae, polemizza sulla mancata riduzione dell’Irpef.

Agitare le elezioni anticipate porterebbe a una permanente resa dei conti con i senatori e i deputati della sua maggioranza che non aderiscono alla sua linea. Meloni ci pensa a ricaricare quell’arma.

E ci pensa anche chi le sta vicino. «La domanda che deve porsi Giorgia Meloni è quella del suo tempo e quello degli avversari, del carpe diem, del cogliere l’attimo. Oggi è forte, l’assalto delle toghe ha fatto balzare il consenso, la sinistra è a pezzi, la destra è unita. E gli italiani hanno capito. Non c’è una crisi di governo, ma c’è una crisi di sistema, l’hanno aperta i magistrati»: è la chiusa dell’editoriale di domenica di Mario Sechi, che prima di dirigere Libero curava la comunicazione di Palazzo Chigi. Un pensiero messo lì. Un avvertimento in pieno stile Prima Repubblica.

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