La settimana lavorativa corta non è ancora per tutti

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La “settimana lavorativa corta” – come viene ormai chiamata la riorganizzazione dell’orario di lavoro su quattro giorni a parità di stipendio – è una modalità che interessa sempre più aziende e sempre più lavoratori, le cui esperienze personali sono spesso raccontate dai media. Si sa ancora poco invece degli effetti sui risultati aziendali, e ancor meno di quelli che avrebbe sull’intera economia se venisse applicata da tutte le aziende.

Questo perché è un modello ancora sperimentale, capace di portare molti benefici per il benessere dei lavoratori coinvolti, ma che presenta anche molte complessità organizzative per gli uffici che decidono di lavorare meno giorni e devono riorganizzare il lavoro di conseguenza: sono complessità in grado di scoraggiare le aziende più piccole – cioè la stragrande maggioranza delle imprese italiane – e che possono diventare un impedimento in certi gruppi di lavoro, per esempio quando si deve garantire un servizio continuativo al pubblico.

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Gli esperti di organizzazione aziendale e i promotori della settimana lavorativa corta sono generalmente ottimisti sul fatto che con un po’ di riorganizzazione quasi tutti i lavori si possono idealmente adattare con successo a questo modello, ma nella pratica è adottato ancora da poche aziende, perlopiù molto grandi, che hanno la possibilità di investire nell’innovazione del modo di lavorare. E questo perché se la possono permettere sia dal punto di vista economico che manageriale: hanno cioè sia i soldi che le competenze interne per farlo. Alcuni esempi in Italia sono Intesa Sanpaolo, la più grande banca del paese, o Luxottica, Lamborghini, Lavazza, e via così, che hanno avviato diverse sperimentazioni di settimana lavorativa corta.

Al contrario nelle piccole aziende la cultura manageriale è ancora molto tradizionale, e non è così frequente che i responsabili mettano in discussione il loro modello organizzativo per crearne uno totalmente nuovo e inedito, che potrebbe rivelarsi anche troppo complicato da gestire. La settimana lavorativa corta non è infatti un modello rodato e pronto per essere introdotto, una sorta di protocollo da attivare, ma ha bisogno di una precisa e forte volontà dei manager per essere calato nelle specifiche necessità aziendali: servono idee su come cambiare i flussi di lavoro, e poi sperimentazioni e aggiustamenti una volta che il nuovo orario è entrato a regime.

Mariano Corso è responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, e presiede anche un team che si occupa di seguire e assistere le aziende che decidono di sperimentare la settimana corta. Sostiene che per i manager è «molto più facile avere a disposizione i dipendenti cinque giorni la settimana a orario pieno, anche se non lavorano sempre a pieno ritmo», piuttosto che ripensare l’intero modello per diventare persino più efficienti: la settimana corta può potenzialmente dare grandi benefici per i dipendenti e per l’azienda stessa, ma è considerata talvolta una grossa grana da chi deve organizzare il lavoro.

Il modello della settimana lavorativa corta a parità di salario può essere di due tipi. Si può concentrare l’orario di lavoro settimanale – dalle classiche 40 ore alle 36 dei contratti più vantaggiosi – in quattro giorni invece che in cinque, dunque aumentando le ore giornaliere ma dando ai dipendenti un giorno in più di riposo. Oppure si può eliminare del tutto la quinta giornata senza aumentare l’orario nelle restanti, ottenendo così una riduzione complessiva del lavoro settimanale. Se viene applicata a parità di stipendio significa che i dipendenti vengono pagati di più all’ora.

Non è infrequente che si adotti un sistema ibrido: in molte aziende la compressione dell’orario in quattro giorni è avvenuta per esempio togliendo anche qualche ora dal totale settimanale, o adottando allo stesso tempo un modello di smart working ancora più flessibile per adattare l’orario alle esigenze dei dipendenti. In alcuni casi le aziende hanno del tutto tolto gli orari fissi di entrata e uscita, e l’obbligo della timbratura, lasciando al dipendente la libertà di organizzarsi a suo piacimento. In altri si è adottata solo in certi periodi dell’anno, quelli meno produttivi, magari sfruttando le ferie o i permessi dei dipendenti.

È evidente che una riorganizzazione di questo tipo, qualsiasi sia il modello scelto, richiede un ripensamento radicale dell’organizzazione. Basta pensare a due esempi molto diversi ma ugualmente complicati: quello di un’agenzia creativa, che lavora su commissione dei clienti e dunque per obiettivi, e quello di un supermercato, che invece deve garantire un servizio continuativo e si organizza su turni.

La prima dovrà fare in modo di continuare a terminare i progetti, e i manager dovranno tenere insieme il lavoro di tutti i dipendenti riorganizzando le scadenze, le riunioni, le consegne: sembra facile, ma quanto più il lavoro è di gruppo tanto più sarà complicato incastrare tutto, soprattutto se ai dipendenti viene data la possibilità di scegliere il proprio giorno di riposo.

Il supermercato, se non vorrà assumere nuove persone per coprire i turni scoperti, dovrà riorganizzare l’intero sistema di turni per garantire il servizio: una soluzione potrebbe essere diminuire le presenze nei giorni e negli orari di minor afflusso, il che richiede ovviamente un monitoraggio attento del comportamento della clientela. Lo stesso vale per esempio per una fabbrica, che può decidere di chiudere un giorno a settimana nei periodi in cui la produzione è più scarica.

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Chi promuove questo modello sostiene che qualsiasi attività può essere riorganizzata, e che si possono trovare moltissimi sistemi per cambiare il modo di lavorare senza danneggiare i risultati aziendali. L’impedimento è ancora, nella maggior parte dei casi, la cultura aziendale italiana: secondo i dati OCSE l’Italia è tra i paesi europei in cui i lavoratori dipendenti passano in media più ore sul luogo di lavoro, e questo nonostante i dati tengano conto anche dei moltissimi contratti a tempo parziale esistenti, che contribuiscono ad abbassare la media.

Sono tre gli aspetti decisivi per introdurre la settimana corta in azienda, e quelli dove ancora si trovano molte criticità: la necessità di sperimentazione, poiché non esiste un modello universale che vada bene per ogni impresa; la flessibilità sia dell’azienda che dei dipendenti ad adattarsi e a venirsi incontro per trovare incastri vantaggiosi per il benessere di chi lavora senza danneggiare gli affari; e infine la forte volontà dell’azienda a mettersi in gioco per innovare.

La sperimentazione è essenziale per tarare la riduzione dell’orario di lavoro sulla propria azienda. In questo senso è difficile pensare che la settimana corta possa essere introdotta in modo universale in tutte le aziende per legge. Attualmente ci sono tre proposte di legge in discussione in parlamento proprio per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio, presentate dalle opposizioni di centrosinistra: i proponenti sono in minoranza, e dunque al momento è impossibile che una di queste venga approvata in mancanza di un accordo politico con la maggioranza.

Sebbene in passato tutte le riduzioni dell’orario lavorativo siano passate per una legge dello Stato – l’ultima è quella del 1997 che ha limitato l’orario settimanale a 40 ore massime – oggi gran parte degli economisti sostiene che procedere in questo modo sarebbe un errore: le differenze organizzative tra i settori sono molto più marcate di un tempo, e il rischio sarebbe quello di creare grossi problemi nelle prime fasi. C’è dunque un generale consenso a procedere per tentativi ed esperimenti, e soprattutto a livello aziendale, o al massimo settoriale.

Il carattere sperimentale della settimana corta, qualsiasi modello si adotti, è peraltro un aspetto da definire e prevedere in modo specifico negli accordi sindacali o individuali che si stipulano per il nuovo orario di lavoro. Aldo Bottini è un avvocato giuslavorista, partner dello studio legale Toffoletto De Luca Tamajo e Soci, che ha seguito diverse aziende nella sperimentazione di questo modello, e dice che un punto fondamentale nelle negoziazioni è quello di prevedere espressamente il carattere temporaneo della settimana lavorativa corta e la scadenza dell’esperimento: in questo modo, se le cose non dovessero andare bene o servissero aggiustamenti, l’azienda può tornare indietro senza problemi e cambiare un po’ le regole.

Serve poi una certa dose di flessibilità e capacità di adattamento di aziende e lavoratori. Da una parte questo potrebbe significare trovare un modo per far sì che il costo della riorganizzazione sia in parte sostenuto anche dai lavoratori, qualora l’azienda non riesca a farsene interamente carico. Bottini fa l’esempio delle aziende che per garantire una giornata lavorativa in meno chiedono ai dipendenti di contribuire usando parte dei loro permessi retribuiti.

A livello organizzativo Corso racconta poi che nei diversi casi che ha seguito spesso la soluzione passa proprio da mantenere questo modello il più flessibile possibile. Per esempio: se un’agenzia creativa viene incaricata di una campagna pubblicitaria importante e che deve essere consegnata in tempi brevi, potrebbe trovarsi nella situazione di sospendere e rivedere la settimana corta, per poi compensare in un periodo più scarico. Se accettano un sistema simile, i lavoratori potrebbero finire per sentirsi responsabilizzati e per sviluppare maggiore attaccamento all’azienda. È dunque un sistema di mutuo aggiustamento, che funziona quanto più il rapporto tra impresa e lavoratori è collaborativo e in un certo senso paritetico: una condizione ancora abbastanza rara nelle aziende italiane.

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È possibile che col tempo però le cose migliorino. Ci sono infatti vari motivi per cui un’azienda può voler decidere di introdurre la settimana corta, motivi che non hanno solo a che vedere con l’obiettivo di aumentare il benessere dei dipendenti. «Un’azienda la introduce se le conviene, è inutile girarci intorno», dice Corso.

Le imprese la pensano nella prospettiva di creare uno strumento per attrarre e tenersi stretti i dipendenti: modalità sempre più flessibili di concepire il lavoro e la conciliazione con la vita privata sono ormai ritenute uno strumento di contrattazione al pari di un aumento di stipendio. Le aziende innovative da questo punto di vista hanno dunque un vantaggio verso quelle che lavorano in modo tradizionale, soprattutto in quei settori in cui è sempre più problematico reperire professionisti alle attuali condizioni di mercato.

Rossella Fasola, manager dell’agenzia per il lavoro Randstad, dice che sebbene sia un modello ancora poco diffuso chi cerca lavoro fa molto caso alle aziende che la propongono, così come il lavoro da remoto è considerato una condizione ormai imprescindibile in certi settori.

È per esempio il motivo per cui nel rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici è stata introdotta in via sperimentale la possibilità di richiedere di lavorare quattro giorni invece che cinque, a parità di ore settimanali e di stipendio. Il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo ha proprio detto che la nuova modalità è anche un modo per rendere il lavoro pubblico più interessante per i lavoratori più giovani, visto che l’età media dei dipendenti pubblici è alta.

In certe realtà e per certe professioni la settimana lavorativa corta è anche un modo alternativo allo smart working per garantire equità tra i dipendenti, e dare cioè ai lavoratori la flessibilità che non potrebbero avere altrimenti: basti pensare agli operai di una fabbrica o ai commessi di un supermercato, le cui mansioni richiedono la presenza fisica sul luogo di lavoro. Proprio per garantire loro la stessa flessibilità di altri tipi di dipendenti, come per esempio gli impiegati amministrativi, certe aziende hanno introdotto proprio la settimana corta.

– Leggi anche: Le persone non trovano lavoro, le aziende non trovano lavoratori

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