Ero un fabbricante di armi, ora sono un pacificatore

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 


“Mine”, “Crisi” e “Rinascita”: due vite in tre atti. La storia di Vito Alfieri Fontana si snoda in tre momenti, raccontati nel suo libro “Ero l’uomo della guerra. La mia vita da fabbricante di armi a sminatore”. In 15 anni aveva progettato, costruito e venduto 2 milioni e mezzo di mine antiuomo, finché la bolla nella quale era immerso non si è sgretolata. Il 15 settembre 1999 Fontana parte, insieme all’ong Intersos, per il Kosovo. Passa 18 anni a sminare i Paesi dei Balcani.
«Ogni metro quadrato sminato», dice, «è tolto alla guerra e restituito alla pace»

Esiste un vecchio detto inglese degli ingegneri che recita: «The best spring is no spring», cioè: «La migliore molla è niente molla». A spiegarlo è Vito Alfieri Fontana, ingegnere elettrotecnico da due generazioni: «Quando in un cinematismo sei costretto a mettere una molla vuol dire che qualcosa non ha funzionato. Aggiungi debolezza al meccanismo. La molla perde di tensione con il tempo: non mantiene le promesse, quasi mai». Con queste parole chiarisce anche l’origine e il significato di un concetto che ama ripetere: «la vera pace è niente guerra».

Vito Alfieri Fontana

Un pensiero – anzi, un atto – che oggi Fontana sostiene con forza. Proprio lui che dal 1977 al 1993 era alla guida della Tecnovar Italiana di Bari, impresa specializzata in produzione di componentistica militare, in particolare mine antiuomo e anticarro. In 15 anni aveva progettato, costruito e venduto 2 milioni e mezzo di mine antiuomo, finché la bolla nella quale era immerso non si è sgretolata. «A volte l’uomo inciampa nella verità ma nella maggior parte dei casi si rialza e continua per la sua strada. Non è stato questo il mio caso», ha scritto nel prologo di Ero l’uomo della guerra. La mia vita da fabbricante di armi a sminatore, libro nel quale ha raccontato la sua vita, divisa in tre atti: “Mine”, “Crisi” e “Rinascita”.

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

Eravamo in una bolla, un club esclusivo. Quando ci sei dentro non ti fai scrupoli. Così facevano tutti

Vito Alfieri Fontana

Le mine, il primo atto

Il primo si svolgeva nell’Italia degli anni Ottanta, quando in Occidente tutte le fabbriche di armi, in barba alla Guerra Fredda e alle tensioni dei blocchi contrapposti, lavoravano su tre turni, ventiquattr’ore su ventiquattro, per far fronte alle commesse militari che alimentavano i due grandi conflitti in corso: quello in Afghanistan e quello tra Iran ed Iraq. Nel momento di massima produzione, la Tecnovar produceva ogni mese 100mila componenti inerti di mine antiuomo e 10mila di mine anticarro: le mine italiane erano richiestissime. Alfieri aveva progettato la mina anti uomo TS-50, il modello di produzione italiana più cercato ed esportato al mondo, il fiore all’occhiello del catalogo della Tecnovar, un cospicuo guadagno assicurato. «Eravamo in una bolla, un club esclusivo – commenta oggi l’ingegnere – quando ci sei dentro non ti fai scrupoli. Così facevano tutti». 

Le prime crepe di quella bolla cominciarono però a manifestarsi agli inizi degli anni Novanta, quando, al decimo anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione Inhumane Weapons, il 3 dicembre 1993 un gruppo di ong e di associazioni lanciò la Campagna contro le mine antiuomo anche in Italia. 

L’inizio del secondo atto: la “Crisi”

A Bari tutti sapevano che cosa produceva la Tecnovar e che cosa progettasse l’ingegnere Fontana. Non ci si poteva più nascondere dietro alle scuse che le mine fossero un mezzo di difesa. A lanciare a Vito la prima vera «offensiva sulla coscienza» fu però suo figlio, Ludovico, un giorno del 1993, quando cominciò a chiedergli che cosa fossero le mine, a cosa servissero, a quali Paesi venissero vendute. Alla risposta del padre, il bimbo aveva ribattuto: «Allora tu produci armi?». «Qualcuno deve pur fabbricarle», la spiegazione, un po’ forzata, di Fontana. «Sì, ma perché devi farlo proprio tu?», la replica del figlio, seguita da un lapidario: «Allora tu sei un assassino, papà», di fronte al silenzio del padre. Ecco la prima crepa della bolla. «Da quel momento, dare una risposta a mio figlio è stato il vero e unico problema della mia vita», afferma Vito. 

Nel frattempo, in quegli anni la televisione con il Maurizio Costanzo Show fece da cassa di risonanza alla Campagna per la messa al bando delle mine fino a ospitare il chirurgo di guerra Gino Strada, di ritorno dall’Afghanistan. E fu proprio il “medico da vicinato”, come si definiva Strada, a proseguire l’offensiva sulla coscienza di Vito. «Una sera squilla il telefono. Era Gino Strada, un gran signore» ricorda con affetto la mente di Tecnovar. Il volto mediatico della Campagna contro le mine antiuomo aveva chiamato uno dei maggiori produttori di mine antiuomo per chiedergli, con toni pacati e cordiali, di «non perdere tempo e interrompere la produzione». 

Allora tu produci armi? Allora tu sei un assassino, papà?

Ludovico, il figlio di Vito Alfieri Fontana

Un’altra crepa nella bolla dell’ingegnere Fontana. Dopo Strada, fu Nicoletta Dentico, militante dell’ong Mani Tese, coordinatrice dal 1992 della Campagna contro le mine, a chiamarlo: «Ingegnere, ma si rende conto di quello che stanno combinando le mine antiuomo in giro per il mondo? È consapevole della gravità della situazione?». Di nuovo domande scomode, a cui Vito rispose come aveva fatto con il figlio e con sé stesso: «Le mine le fanno tutti, mica solo io». Ormai però la sua coscienza era in piena crisi.  Intanto, sull’onda della campagna popolare, nel 1993 il Governo italiano decise che dall’anno successivo non avrebbe più concesso nuove licenze per la produzione e l’esportazione di mine antiuomo: un ulteriore segnale di quanto il vento stesse cambiando anche in Italia. Nello stesso anno, si presentarono nell’ufficio di Fontana un tornitore e un fresatore della Tecnovar: «Noi non possiamo toccare armi che vengono utilizzate in guerra. La nostra religione ce lo impedisce categoricamente». Ai due, Testimoni di Geova, l’ingegnere ribatté che non erano armi, ma componenti che venivano assemblate all’estero. «Ingegnere, non giriamoci intorno, sono armi che uccidono persone innocenti. Noi non possiamo farlo. È una questione di coscienza», la loro replica.

Ogni giorno arrivavano in ufficio lettere di protesta e pacchi contenenti una sola scarpa: un modo per ricordarmi gli effetti delle mine che producevamo

Vito Alfieri Fontana

Proprio la coscienza di Fontana veniva continuamente tormentata e la sua bolla ormai quasi sgretolata: «Ogni giorno arrivavano in ufficio lettere di protesta e pacchi contenenti una sola scarpa: un modo per ricordarmi gli effetti delle mine che producevamo», ricorda l’ingegnere.Era arrivato il momento di rispondere a tutte quelle sollecitazioni. L’occasione arrivò inaspettata sulla sua scrivania, proprio tra le lettere degli attivisti pacifisti. Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pace lo invitava all’incontro intitolato “Produzione di armi e società civile: c’è una maniera per camminare insieme?”. Una convocazione che veniva direttamente dal presidente nazionale di Pax Christi dal 1985: monsignor Antonio Bello, che tutti chiamavano affettuosamente don Tonino. Vito decise di andare al confronto, anche se non avrebbe conosciuto quel vescovo appassionato, scomparso un mese prima dell’evento. Quella però fu l’occasione in cui la coscienza di Vito venne scossa definitivamente, grazie alle provocazioni di un giovane attivista: «Ma lei cosa sogna di notte? Che scoppi un’altra guerra per produrre mine e guadagnare un sacco di soldi? Desidera che i conflitti in giro per il mondo si moltiplichino per poter lavorare e arricchirsi? Ma che razza di vita è la sua?».

La bolla esplode

«Non fu una domanda improvvisata – riprende Fontana – era per scavare dentro in modo che fossi io stesso a darmi una risposta: la vecchia maieutica socratica… Uno può rispondere con le logiche del mondo e quindi la guerra rientra nella logica, secondo la coscienza però è un’ altra storia».  Dopo quella sollecitazione, decisiva, il 1993 fu l’anno in cui Vito Alfieri Fontana stabilì che la Tecnovar doveva smettere di produrre gli ordigni di guerra. A quella conversione di coscienza doveva seguire però una riconversione industriale, per salvare i posti di lavoro degli 86 dipendenti. Tuttavia, troppe le zavorre burocratiche, gli aspetti tecnici ed economici che impedivano il processo e così l’azienda famigliare si spense lentamente da sola, mentre gli operai venivano riassorbiti dal mercato. Il tutto sotto lo sguardo arrabbiato e incredulo del padre di Vito, che quell’azienda l’aveva fondata. 

Da quel momento, per l’ex fabbricante di armi il cammino fu in salita, con un passato da lasciare alle spalle e una fiducia del mondo della cooperazione internazionale da conquistare. E lo capì subito quando, nel settembre del 1997, Nicoletta Dentico lo invitò a recarsi ad Oslo come consulente della Campagna per la messa al bando delle mine antiuomo, perché serviva un esperto di mine per evitare trappole nella stesura del trattato. Chi meglio di lui? Così l’ingegnere barese si recò ad Oslo, accolto da un profondo senso di imbarazzo e di diffidenza da parte dei campaigners italiani, basiti quanto lui di dover condividere il tavolo di lavoro con chi aveva prodotto armi per 15 anni. 

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Ad aiutare il dialogo fu però Jody Williams, proprio colei che creò la Campagna per le mine antiuomo, dopo aver visto nel 1950 gli effetti di quelle armi sulle vittime della guerra in El Salvador; colei che, alla fine, diede il volto al successo della Convenzione di Ottawa del 1997 per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione e che vinse il Nobel per la pace.  Il trattato quindi entrò in vigore nel 1999, anche grazie al contributo di Fontana: una vittoria, senz’altro, ma per essere ritenuta tale doveva avvenire anche lo sminamento delle terre colpite dalle guerre, aveva avvertito la Williams. Ma chi doveva occuparsene? Qualcuno degli attivisti voleva escludere l’apporto delle aziende che avevano prodotto mine, qualcun altro invece riteneva utile ricorrere alla loro esperienza e tecnologia per bonificare i terreni infestati. 

L’arrivo in Kosovo come operatore umanitario per me era stato come assistere al mio funerale dal vivo

Vito Alfieri Fontana

Fontana provò allora a mandare il suo curriculum alle organizzazioni per candidarsi come sminatore, ma non ricevette nessuna risposta, se non che non avrebbe potuto lavorare in quel settore, provenendo dall’industria della produzione militare. Stava per perdere le speranze, quando un giorno sentì alla radio l’annuncio della ong Intersos che stava cercando esperti da inviare in Kosovo come sminatori. E così, dopo una serie di colloqui positivi, il 15 settembre 1999 su un volo diretto a Pristina iniziò per Vito Alfieri Fontana la terza fase della sua vita. 

Terzo atto, la “Rinascita”

Una terra piena di mine e di bombe a grappolo gli diede il benvenuto insieme a una popolazione che confidava nell’aiuto delle ong per riprendere una vita normale. «L’arrivo in Kosovo come operatore umanitario per me era stato come assistere al mio funerale dal vivo. Ero passato da una vita all’altra» si legge all’inizio del capitolo del libro intitolato “Rinascita”. L’episodio che più lo segnò in quel terzo atto fu quando vide una scuola serba, o meglio, i suoi resti, dopo essere stata incendiata: «c’erano i brandelli di libri per terra e gli “scheletri” dei banchi. Erano rimaste solo le intelaiature», racconta Fontana. D’altronde però: «la pace si costruisce anche inquietandoci gli uni e gli altri», aggiunge. Per Intersos e per l’ingegnere, cominciò una lunga impresa che sarebbe durata anni: «mancava totalmente una preparazione della pace dopo la guerra», commenta Fontana. Da principio affiancò allora il project manager dell’attività di sminamento, il generale Luciano Laface, a cui poi subentrerà come capo missione di un team composto da ragazzi bosniaci e kossovari. 

«Non si vive nella beata letizia del pentimento, c’è anzi il rischio di autoassolversi – precisa l’ingegnere, ricordando quegli anni – Il pacificatore si porta con sé le sofferenze delle persone colpite e le deve gestire in modo tale che si trasformino in cooperazione». È qui che si inserisce per lui la differenza sostanziale fra i “pacifisti” e i “pacificatori”: «Il tempo del pacifismo ideologico è finito. Servono i pacificatori, gente che va a contatto con la realtà, nuda e cruda, della guerra. Ce ne sono oggi! Basta coinvolgerli». E non solo: è necessario riconoscerli, anche economicamente. Per gli anni lavorati come sminatore infatti, Vito oggi percepisce 82 euro di pensione, il resto è frutto dei contributi versati durante gli anni alla Tecnovar: «un’ingiustizia per tutti quegli operatori umanitari che con il loro lavoro tengono alto l’onore della bandiera italiana». 

Alla fine, l’ex fabbricante di armi passò 18 anni a sminare i Balcani: dopo la missione in Kosovo, si recherà infatti in Bosnia e poi in Serbia, dove trascorse tre mesi smontando le bombe NATO rimaste lì. Visse da vicino le conseguenze della guerra e degli ordigni che lui stesso aveva fabbricato, consapevole che il suo contributo non avrebbe restituito nulla ai mutilati o ai parenti delle vittime. «Quando ci trovavamo di fronte a un campo immenso da sminare ci prendeva lo sconforto – conferma Vito – Quello che suggerivo io però era iniziare, metro quadrato dopo metro quadrato: anche se poco, era pur sempre un metro quadrato tolto alla guerra e restituito alla pace». 

Non si vive nella beata letizia del pentimento, c’è anzi il rischio di autoassolversi. Il pacificatore si porta con sé le sofferenze delle persone colpite e le deve gestire in modo tale che si trasformino in cooperazione

Vito Alfieri Fontana

Oggi, sono ancora 58 gli Stati contaminati dalle mine antiuomo, 92 i Paesi impegnati in conflitti oltre i loro confini. «Nelle mie due vite ho capito che per fare la guerra basta un’arma, per fare la pace occorre coraggio», conclude Vito Alfieri Fontana, prima fabbricante di armi, oggi pacificatore. 

Le immagini, fatta eccezione per quella che ritrae Vito Alfieri Fontana, fanno parte dell’archivio storico dell’organizzazione umanitaria Intersos

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Vuoi accedere all’archivio di VITA?

Con un abbonamento annuale potrai sfogliare più di 50 numeri del nostro magazine, da gennaio 2020 ad oggi: ogni numero una storia sempre attuale. Oltre a tutti i contenuti extra come le newsletter tematiche, i podcast, le infografiche e gli approfondimenti.





Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Prestito personale

Delibera veloce

 

Source link