Il ministro della salute Orazio Schillaci fatica a convincere i medici a trasferirsi nelle Case di comunità, le nuove strutture sanitarie in corso di realizzazione grazie al Pnrr. E allora Forza Italia prova a mediare: giovedì c’era anche il coordinatore e vicepremier Antonio Tajani a presentare un ddl che conserva ai medici di famiglia lo status di liberi professionisti ma li obbliga a dedicarsi ai loro assistiti per venti ore a settimana e agli ambulatori pubblici per diciotto. Non è detto però che basti a rammendare la sanità territoriale, uscita a pezzi dalla pandemia e da allora appesa a una riforma disegnata dal ministro Roberto Speranza e mai davvero avviata.
Quella riforma aveva due pilastri. Il primo luogo le strutture, le case di comunità (ridotte a mille dal governo Meloni) da realizzare su tutto il territorio nazionale ma in gran parte realizzate nei poliambulatori esistenti. L’altro pilastro riguarda i medici di base che dovrebbero garantire l’apertura delle «case» 24 ore su 24 per sette giorni a settimana. Qui regna la confusione. Le principali associazioni di categoria sono riluttanti a sposare la riforma e a traslocare nelle Case di comunità per i turni necessari, rinunciando alla loro autonomia. Senza i professionisti, però, le Case di comunità che ci siamo impegnati a realizzare con l’Ue in cambio di due miliardi di euro diventeranno cattedrali nel deserto. Per questo Schillaci nelle ultime settimane ha preso in considerazione l’idea di trasformare i medici di base in dipendenti pubblici del Ssn, con turni e sedi di lavoro assegnati dalle Asl come per gli ospedalieri. È un’idea tradizionalmente di sinistra: la Cgil, con altre associazioni minoritarie di medici, la chiedo da tempo insieme alla riqualificazione del medico di medicina generale. Ma oggi è sposata soprattutto dalla Lega per evitare che proprio nel delicato ambito sanitario il Pnrr fallisca per mancanza di collaborazione.
La mediazione di Forza Italia ha incassato il plauso immediato della Federazione degli ordini dei medici. «La proposta – spiega al manifesto il suo presidente Filippo Anelli – ha il pregio di mantenere l’attuale status libero-professionale del medico di base che favorisce il rapporto di fiducia con i suoi assistiti. La dipendenza pubblica avrebbe legato i medici alle sole case di comunità, svuotando il territorio e cancellando la prossimità. Sulla distribuzione oraria proposta, saranno il ministero, le Regioni e le associazioni a esprimersi».
Il tentativo forzista di salvare sia la libera professione che le «Case» però è una coperta corta. Oggi i medici di famiglia tengono aperto lo studio privato per quindici ore a settimana, in base all’Accordo collettivo nazionale che regola il loro rapporto con il Ssn. Molti di loro però lamentano che tra visite domiciliari, lavoro amministrativo e formazione permanente le ore di lavoro settimanali arrivino facilmente alla cinquantina. Vincolandone diciotto alle Case di comunità, dovrebbero rinunciare alle visite a domicilio oppure chiudere gli studi privati. Inoltre, c’è il problema della prossimità: nella primissima versione del Recovery plan redatta dall’allora ministro Roberto Gualtieri, le case di comunità dovevano essere una ogni dodicimila abitanti. Nelle successive revisioni – calata l’attenzione determinata dalla pandemia – il numero è stato progressivamente ridotto. Le mille attuali sono troppo poche per garantire la prossimità degli attuali medici di famiglia, soprattutto nelle aree interne meno collegate.
«A colmare il vuoto saranno le multinazionali della sanità privata, a pagamento» paventa Anelli. L’alternativa è mantenere lo status quo e dichiarare fallita sul nascere la riforma post-pandemia. Ma strutture come le Case di Comunità, in cui ricevere visite ed esami senza troppe attese e in cui affrontare anche le condizioni sociali da cui originano molti malanni cronici, esistono in tutta Europa. E l’Italia ne ha bisogno più di tutti, visto che 4,5 milioni di persone rinunciano ogni anno a curarsi per la lunghezza delle liste d’attesa e i costi della sanità privata. L’affollamento dei pronto soccorso determinato al 68% da codici bianchi e verdi trattabili altrove dimostra l’insufficienza dell’attuale organizzazione.
La soluzione di Forza Italia non basterà a risolvere il rebus. I nodi che ora vengono al pettine però non dovrebbero sorprendere nessuno. Il Pnrr è stato varato nel 2021, ormai quattro anni fa. I governi (Draghi prima, Meloni poi) avrebbero dovuto accompagnare il Piano con investimenti e riforme sul lato del personale indispensabili per far funzionare la riforma della sanità territoriale. E invece il governo ha preferito guardare da un’altra parte, puntando sulla frottola dell’«investimento in sanità più grande di sempre».
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