La premier vuole una democrazia fondata sul governo

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Quella di Meloni è una sofisticata ed obliqua strategia comunicativa, capace di trasfondere nella cultura politica del paese l’idea che l’esecutivo possa attuare il proprio compito di governo solo là dove gli altri organi vi collaborino con armonioso e pacato spirito di servizio

Se del caso Almasri sono ancora troppi i lati oscuri, chiarissima invece è la denuncia di Giorgia Meloni: quella in atto è una manovra eversiva, o quasi, per incrinare l’equilibrio tra i poteri. Eppure, dietro una difesa così accorata di un principio tanto fondamentale c’è assai di più: l’insidioso tentativo di preparare l’opinione pubblica a un ampio cambiamento di sistema, che al momento non può ottenersi tramite gli strumenti previsti per l’emendamento costituzionale.

Detto altrimenti, quella di Meloni è una sofisticata ed obliqua strategia comunicativa, capace di trasfondere nella cultura politica del paese l’idea che l’esecutivo possa attuare il proprio compito di governo solo là dove gli altri organi vi collaborino con armonioso e pacato spirito di servizio.

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Questa strategia segue un duplice registro, vale a dire, la complottistica allusione a macchinazioni para-eversive e la difesa protocollare dello stato di diritto. A più riprese, Meloni e i suoi ministri ripropongono l’idea di una collusione opaca tra le opposizioni e le frange politicizzate della magistratura, volta a propiziare un nuovo assetto istituzionale, impiantato sull’ufficio morale e politico dei giudici.

Difesa dello stato di diritto?

Con la solita perizia teatrica, nella giornata di giovedì, Meloni ha inscenato il conflitto (morale prima che politico) tra la miserabile esigenza di scalzare il governo con mezzi poco limpidi e il bene della nazione, messo a repentaglio dalle tecniche di guerriglia della sinistra e dei magistrati. In tal modo, la maestria da comunicazione social della presidente del Consiglio ha saputo trarre profitto mediatico da quello che comunque rimane un pasticcio.

La vigorosa reazione di Meloni segue il secondo registro di cui sopra, dacché sembra rifarsi al più ferreo rispetto dei principi nodali dello stato di diritto: se i magistrati nutrono legittime aspirazioni di governo, non possono far altro che candidarsi e farsi eleggere. Ma, mentre si auto-introna tedofora della legalità istituzionale, Meloni (coadiuvata dall’intero suo governo) alimenta surrettiziamente il sospetto, presso la cittadinanza, che l’attività dell’esecutivo non sia compatibile con l’esercizio di forze che ne contrastino i disegni.

La funzione «suprema» del governo

In tal senso, quella meloniana non mi pare tanto la difesa del tradizionale stato di diritto, quanto di una sua particolare declinazione, che veniva diffondendosi negli anni Trenta del Novecento italiano. In quel complicato decennio, un giurista di punta come Costantino Mortati (che più avanti sarà nobile padre costituente) andava avanzando un argomento di sicura fortuna: uno stato esiste e sussiste solo nella misura in cui può contare su un «supremo potere di governo», in capo all’esecutivo, che informi i fini fondamentali dello stato e ispiri l’azione degli altri organi costituzionali.

La funzione di governo dell’esecutivo è da considerarsi «suprema» perché, senza la sua attività «coagulante», non c’è unità d’intenti e quindi non c’è Stato. Scriveva Mortati nel 1931: «La supremazia della funzione importa necessariamente che l’organo a cui questa venga attribuita acquisti una superiorità sugli altri organi costituzionali: la pluralità di questi è concepibile solo a patto che si crei, al di sopra di essi, un organo supremo».

Di qui germinava l’invito a concepire l’azione del parlamento come funzionale alla realizzazione dei fini fondamentali indicati e fissati dall’esecutivo, talché le camere dovevano meglio specificare quei fini tramite legislazione, non già porre freni o veti. Del pari, le difformi valutazioni e volontà della magistratura dovevano potersi raccogliere e fondere lungo l’asse focale identificato dall’organo supremo.

Equilibrio dei poteri

Tutto questo, ora come allora, non necessita di complicate riforme costituzionali, ma di una specifica interpretazione “esecutiva” della natura e del modo di funzionamento delle istituzioni. Essenziale, al contempo, è che tra la popolazione si diffonda detta concezione dello stato di diritto, incentrata sul governo, e sulla necessità che esso inscriva nei propri fini una sostanza etica, ossia valori fondamentali chiari e definiti, intorno a cui si possano armoniosamente raggrumare gli interessi del popolo, dei suoi rappresentanti e dei funzionari pubblici.

Beninteso, in tutto questo non c’è alcuna traccia di fascismo, a dispetto del periodo cui si faceva qui riferimento. Ma certo è una concezione alquanto sghemba dell’equilibrio tra i poteri: come nelle più ardite concezioni assiologiche della libertà, l’autonomia del legislativo e del giudiziario è possibile solo nella misura in cui questi organi obbediscono all’esecutivo.

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