Riteniamo opportuno per l’attualità del tema ripubblicare questo contributo, già pubblicato il 13 novembre 2018 su Questa Rivista.
Il Tribunale dei ministri, questo sconosciuto. Annotazioni sparse
di Zaira Secchi
Parlare del Tribunale dei ministri è come entrare nella storia della Repubblica.
Il testo originario della Costituzione licenziato nel dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente prevedeva all’art. 96, in combinazione con gli artt. 134 e 135, che fosse la Corte Costituzionale a giudicare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, dopo la loro messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 11 marzo 1953, numero 1, consente infine l’effettivo funzionamento della Corte Costituzionale con l’introduzione delle norme integrative di cui all’art. 137, Cost. .
Pertanto in origine per i ministri era prevista una giurisdizione speciale del tutto analoga a quella del Presidente della Repubblica, per il quale invece, ancora oggi, è stata mantenuta la competenza della Corte Costituzionale nell’ambito di un procedimento che più recentemente anche da noi è stato denominato “impeachment” (anche quest’ultimo salito agli onori della cronaca da poco!), mutuando in maniera impropria tale termine dall’ordinamento anglosassone, istituto ivi utilizzato a partire dal 1376 per colpire i ministri del Re resisi responsabili di gravi prevaricazioni.
La disciplina oggi ancora in vigore viene, infine, introdotta nel 1989 con la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, qui, invece, il destino penale dei ministri viene separato da quello del Presidente della Repubblica, consegnandolo alla giurisdizione ordinaria, ma attraverso un procedimento speciale molto articolato, pieno di particolarità e caratterizzato da un difficile sbocco giudiziale. A questa svolta si giungeva ben 11 anni dopo l’iniziativa popolare referendaria, quando, in seguito alla deflagrazione del cosiddetto “scandalo Lockheed” nel 1977, in cui erano stati coinvolti alcuni ministri, si era proposto di eliminare la giurisdizione speciale che non si percepiva più come garanzia, bensì come mero privilegio a favore dei ministri, che si volevano invece equiparati agli altri cittadini. Però il quesito, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale insieme ad altri tre tra gli otto proposti, veniva accantonato un mese prima della sua sottoposizione alla volontà popolare grazie ad un intervento legislativo operato con legge 10 maggio 1978, n. 170, che in realtà non mutava affatto la natura di “giustizia politica” propria del procedimento originario. E’ inoltre significativo ricordare che il caso Lockheed fu l’unica vicenda giudiziaria penale a carico di ministri della Repubblica, che, passando attraverso le forche caudine della Commissione parlamentare inquirente, riuscì ad approdare davanti alla Corte Costituzionale. Alla svolta costituzionale del 1989 si arrivava, infine, dopo due anni dall’esito referendario -al secondo tentativo si riuscì, infatti, a tenere il relativo referendum- che abrogò nel novembre 1987 i primi otto articoli della legge 10 maggio 1978, n. 170, proprio quella con la quale si era “dribblata” la precedente iniziativa referendaria.
Con la legge costituzionale del 1989, quella ancora oggi in vigore, il legislatore ha spostato il connotato della “specialità” dalla figura del Giudice, prima Corte Costituzionale oggi Giudice ordinario, al procedimento che per la sua complessità ed articolazione può essere rappresentato visivamente come un percorso ad ostacoli, di cui l’ultimo ostacolo è rappresentato dall’autorizzazione a procedere. Tale autorizzazione può essere concessa dalla Camera di appartenenza o dal Senato in tutti i casi in cui il Presidente del Consiglio o il ministro non appartenga a nessuna delle due (come sarebbe il caso, per esempio, dell’attuale Presidente del Consiglio, che non fa parte di nessuna delle due Camere). Ma tale snodo del procedimento crea una radicale discontinuità tra il Tribunale dei ministri, che per tutta la fase delle indagini si muove secondo le regole del diritto penale valevoli per tutti, e la Camera interpellata, che in sede di autorizzazione a procedere è legittimata ad esprimere un giudizio, assolutamente insindacabile e di natura squisitamente politica, su quale interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o su quale preminente interesse pubblico nella funzione di governo sia concretamente prevalso o meno rispetto all’interesse invece tutelato dalla norma incriminatrice. L’autorizzazione a procedere concessa dalla competente Camera vale come condizione di procedibilità e risulta necessaria perché il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente per territorio possa, poi, procedere oltre secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, ma senza che nell’organo giudicante ci siano quegli stessi magistrati che hanno fatto parte del Collegio che ha svolto le indagini e che ha richiesto l’autorizzazione a procedere.
Iniziamo con l’individuare quale sia l’autorità giudiziaria a cui è stata assegnata la competenza ad indagare e a cui il Procuratore della Repubblica deve, omessa ogni indagine, trasmettere entro 15 giorni gli atti con le sue richieste. Va precisato innanzitutto che il ruolo del PM è più incisivo di quello che sembrerebbe emergere da una prima lettura degli articoli di legge, infatti egli: 1) prima di inviare gli atti al Tribunale dei ministri, deve comunque avere svolto tutte quelle indagini che gli consentano di qualificare il fatto come reato ministeriale, 2) deve dare parere obbligatorio, ma non vincolante, sull’archiviazione, potendo anche richiedere ulteriori indagini, se ritenute necessarie, 3) deve dare il proprio parere al Collegio che ritenga di rimettere gli atti alla competente Camera per acquisirne l’autorizzazione a procedere, 4) sarà il PM stesso, nel caso in cui lo richieda il Tribunale dei ministri, a trasmettere gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione a procedere.
Il Tribunale dei ministri è un organo collegiale inesistente nello scenario ordinario e viene costituito ad hoc con sorteggio dei tre componenti ogni biennio nell’ambito di ogni singola Corte di appello: ha infatti una competenza distrettuale ovvero il Tribunale dei ministri si insedia presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello. Naturalmente quello di Roma ha una competenza di fatto quasi totalizzante, perché è la regola che i ministri esercitino le funzioni all’interno dei loro ministeri o delle riunioni consiliari, ma non è detto che l’evento antigiuridico si consumi sempre nell’ambito romano. La competenza territoriale, sempre di natura distrettuale, segue le regole ordinarie del codice di procedura penale nella ripartizione tra i vari Tribunali dei ministri. L’organo, si diceva, è collegiale ed è composto da un Presidente e da due Giudici a latere, che ne diventano i membri effettivi, sorteggiati tra tutti i magistrati di Tribunale del distretto aventi una anzianità non inferiore ai cinque anni. Viene infatti istituito presso la Corte di appello un seggio elettorale composto da tutti i Giudici civili e penali insieme ed è questa la prima particolarità, poiché tramite il sorteggio possono essere chiamati a decidere in materia penale anche Giudici civili. E’ infatti il caso a scegliere e magari può capitare che tutti e tre i componenti sorteggiati siano dei Giudici civili (come è capitato qui a Roma, dove peraltro la competenza non è mai promiscua), ma ci si attrezza: siamo Giudici o no? Dal sorteggio vengono esclusi i magistrati collocati fuori ruolo e vengono inserite all’interno di un’urna le schede recanti il nome di ogni singolo Giudice del distretto. All’estrazione a sorte procede in pubblica udienza il Collegio elettorale appositamente riunito presso la Corte di appello e presieduto dal Presidente della Corte e, una volta sorteggiati i tre membri effettivi, nella stessa seduta possono già venire estratte con le medesime modalità altre tre schede per i tre supplenti, al fine di garantire il costante funzionamento dell’organo collegiale; altrimenti ad ogni impedimento o trasferimento si dovrà procedere ad altro sorteggio con costituzione di una Commissione elettorale ad hoc. Si diceva che la durata di ogni singolo Collegio sorteggiato è di due anni, ma tale periodo può subire delle proroghe con riferimento a quei procedimenti per i quali siano già iniziate, seppure non terminate, le indagini: insomma tutto ciò che incameri fino al giorno prima della tua scadenza rimane tuo fino a conclusione delle indagini. Presidente lo diventa chi possiede le funzioni più elevate e, a parità di funzione, è il più anziano di età e non di carriera. Altra curiosità: ci si è infatti fidati maggiormente dell’esperienza di vita, piuttosto che professionale del magistrato.
E che funzioni si è chiamati a svolgere! Insieme di indagine e decisionali, insomma il Tribunale dei ministri cumula in sé la figura del PM e quella del Giudice delle indagini preliminari: una figura molto simile a quello che era il vecchio Giudice istruttore, ma questa volta in versione collegiale. Sì, perché si fanno le indagini sempre in tre, ma senza una propria polizia giudiziaria con la quale avere potuto costruire una pregresso affiatamento: il Tribunale dei ministri infatti si può rivolgere all’ “universo mondo” per la delega delle indagini, insomma con una totale discrezionalità nella scelta. La collegialità, che è senz’altro un valore, in questo caso affatica e rallenta non poco le attività, perché i tre Giudici possono, come capita assai spesso, avere tra loro sedi lavorative differenti, non solo nell’ambito della medesima città, ma anche nell’ambito di città diverse. Trattandosi di competenza distrettuale, il Tribunale dei ministri di Roma, per esempio, attinge i suoi componenti, oltre che dalla sede di Roma, anche tra i giudici dei Tribunali di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, a distanza di centinaia di chilometri tra loro e senza che sia prevista una qualche esenzione dal lavoro ordinario. Quindi il Giudice del Tribunale dei ministri è costretto a muoversi sul territorio per riunirsi con gli altri componenti e a combinare i propri impegni con questi ultimi al fine di decidere collegialmente cosa fare e al fine di provvedere con atti collegiali, continuando comunque a svolgere appieno le proprie udienze ed a osservare tutte le scadenze nel deposito dei propri provvedimenti. Ma quale è il problema, ci si attrezza: siamo Giudici o no?
Il Tribunale dei ministri entro novanta giorni dal ricevimento degli atti o archivia con decreto non impugnabile oppure con relazione motivata trasmette gli atti al PM per l’inoltro alla Camera competente ai sensi dell’art. 5, l. cost. n. 1/1989. Il decreto di archiviazione può essere revocato dal Collegio qualora sopravvengano nuove prove, su specifica richiesta del PM. Il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini dà il senso dell’estrema celerità con cui gli atti debbano essere compiuti e con cui si debba giungere ad una decisione conclusiva, ma comunque esso non è perentorio, bensì meramente ordinatorio. I reati ministeriali, si diceva, sono solo quelli commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio e dai ministri, ma questi ultimi possono essere sottoposti al procedimento speciale in questione anche dopo che siano cessati dalla carica, nel caso in cui ovviamente la notitia criminis sia emersa o sia arrivata al Tribunale dei ministri successivamente.
Nulla è scontato in questo procedimento, neppure chi debba decidere sulla natura ministeriale del reato: il pubblico ministero che per primo raccoglie la notizia di reato, il Tribunale dei ministri che la riceve ed indaga su di essa o la Camera chiamata a pronunciarsi sull’autorizzazione a procedere? Al riguardo è stato infatti più volte sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che, via via chiarendo sempre di più gli aspetti procedurali, ha infine statuito sul conflitto sollevato dalla Cassazione contro il Senato in riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione attribuiti all’allora ministro Castelli <<che non spetta all’organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo all’Autorità giudiziaria>> (Corte Cost. 25.2.2014, n. 29). In tali occasioni la Corte Costituzionale non è stata mai chiamata a sindacare il contenuto delle decisioni prese, bensì a regolare il procedimento, individuando semplicemente chi avrebbe dovuto decidere sul punto, se, appunto, l’organo giudiziario o quello parlamentare.
In conclusione, attingendo dall’esperienza personale, posso dire che lo svolgimento di tali funzioni può rappresentare una bella palestra professionale, giocata sempre sul filo della difficile conciliabilità degli impegni lavorativi, della delicatezza dei temi e della necessità di rapidità dell’intervento.
Immagine via MET.
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