Fino al 30 aprile a Roma la mostra “Il paese della biodiversità. Il patrimonio naturale italiano” del 42enne salentino, che da 11 anni vive nel Paese iberico
Vita da fotografo naturalista, da chi ha giurato a sé stesso che si può «vivere con meno». Ugo Mellone (42 anni, leccese) è tra i fotoreporter ambientali più apprezzati al mondo. Ridurre il suo impegno a “professione” è il modo più rapido per sbagliare approccio, poiché chi sceglie di donarvisi compie innanzi tutto un gesto etico.
Quand’è nata la sua passione?
«A sedici anni, decisi di andare incontro al mio entusiasmo per la natura».
Si è interessato prima alla natura o alla fotografia?
«Per me che la natura l’ho studiata, questo passaggio di ambito non è mai avvenuto. Fotografo quello che studio, studio quello che fotografo. Come si usa dire, sono esattamente dove avrei voluto essere».
Una chiamata vocazionale cominciata con gli studi in Scienze naturali a Pavia, poi la vita ha trascinato questo atipico salentino prima ad Alicante, poi a Granada dove vive da 11 anni. E dove presto gli nascerà un figlio, ragione che gli impedirà di godersi “Il paese della biodiversità. Il patrimonio naturale italiano”, la mostra allestita da National Geographic Italia e National Biodiversity Future Center (CNR Roma, fino al 30 aprile) che ospita gli scatti di Marco Colombo, Bruno D’Amicis e appunto Ugo Mellone.
Finalmente in mostra anche in Italia?
«Una grande soddisfazione, in Italia un evento del genere è complicato da realizzare. Spero possa farci raggiungere un pubblico molto ampio, soprattutto le nuove generazioni».
Se dovesse indicare il luogo italiano che più si avvicina alla sua idea di purezza?
«Ho cominciato a conoscere la montagna da piccolo sul Pollino, ritengo il Giardino degli Dei uno dei luoghi italiani che più mi avvicinano all’idea di wilderness. Qui ho fotografato un relitto dell’epoca glaciale che cresce solo in alcune località dell’appennino meridionale: un pino loricato, ribattezzato Italus, che è attualmente l’albero europeo più antico di cui sia stata accertata l’età, circa 1.230 anni».
Come sta invece la “sua” Puglia?
«In Puglia, come in tante altre aree del Mediterraneo, lo sfruttamento del suolo ha modificato in maniera decisiva la biodiversità. C’è sempre la foresta latifoglie più estesa d’Italia (Umbra, ndr), ma il resto è abbastanza compromesso. In linea generale, quindi non solo i pugliesi, abbiamo un rapporto malato con la biodiversità».
Faccia un esempio?
«La xylella, la tragedia che ha colpito la monocoltura più diffusa della regione. Forse l’epidemia sta suggerendo un modo per ripensare le campagne, per riforestare tenendo conto della necessità di incentivare la biodiversità. Invece si sta pensando alla riforestazione di monocolture resistenti al batterio, rinunciando all’idea di cambiare strada».
Non ci accorgiamo di cosa ci succede intorno?
«Una delle immagini in mostra al Cnr è quella di alcuni gabbiani corsi, l’ho scattata in Salento. Fino a 30 anni fa questa specie era comune in Sardegna e Corsica, recentemente è stata individuata una colonia che ha nidificato sull’isola di Sant’Andrea a Gallipoli. Non è un gabbiano comune, si riproduce solo su isolette disabitate. Un privilegio trovarlo in Puglia, ma in quanti se ne sono accorti?».
Nel 2015 Ugo Mellone fu candidato al Wildlife Photographer of the year, il premio Oscar della fotografia naturalista che viene assegnato al Museo di storia naturale di Londra: partecipò con l’incantevole fotografia Butterfly in Crystal (una Pyronia cecilia intrappolata in una crosta di sale sulla scogliera tra Otranto e Porto Badisco), aggiudicandosi la vittoria nelle categoria “Invertebrati”.
Cos’è per lei l’attesa?
«Pubblico da anni i miei servizi fotografici sulle maggiori riviste internazionali, tuttavia la soddisfazione più grande è poter trascorrere il mio tempo nella natura. Essere testimone di scene che, pochissime persone al mondo, possono vedere».
Cosa succede in quei momenti?
«Che un evento atteso per giorni finalmente si materializza. Come per magia tutto trova il suo posto nel mondo».
L’esperienza più forte?
«Le settimane trascorse nel Sahara, dove ti rendi conto che le cose della vita urbana non servono a niente. Il vuoto acuisce i sensi, restituisce significato ai dettagli. Chi passa da lì, quale animale, in cerca di cosa. Un filo d’erba nel deserto vuol dire tutto, a cominciare dalla resilienza della natura. Ho atteso per tre settimane, poi sono arrivate le gazzelle di Cuvier e altri mammiferi sahariani. Mi è bastato vederle, la fatica mi è stata ripagata all’istante».
E quella più sgradevole?
«Eravamo in Grecia, proprio con Marco Colombo e Bruno D’Amicis. Eravamo lì per fotografare foche monache, in un’isoletta disabitata da umani ma popolata da molti ratti. Dopo due o tre giorni di pacifica convivenza, hanno cominciato a camminarci addosso. Avevano imparato a fare dei buchi nelle bottiglie d’acqua, stavano per finire le nostre scorte… ».
E cosa avete fatto?
«Foto, come sempre. Poi però abbiamo levato le tende».
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