Sta suscitando interesse giornalistico, anche a proposito delle probabili, ormai quasi inevitabili dimissioni della ministra Daniela Santanchè dopo il suo rinvio a giudizio, il rapporto politico tra il presidente del Senato, Ignazio La Russa, e la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
Prima di entrare nel merito di questo rapporto, occorre fare, però, una considerazione di carattere generale.
È una grande riprova del buon funzionamento della nostra democrazia parlamentare, nonostante tanti pregiudizi e ingiustificati giudizi negativi, il fatto che in questi anni praticamente tutti i partiti politici si siano alternati al governo del Paese e che tutte le culture politiche abbiano avuto accesso alle massime cariche dello Stato (presidenza della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio), anche le culture politiche più distanti ed estreme.
La cultura politica post comunista, ad esempio, per restare solo agli anni della cosiddetta seconda Repubblica, ha avuto Giorgio Napolitano presidente della Repubblica, Massimo D’Alema presidente del Consiglio, Luciano Violante (ma anche Fausto Bertinotti) presidente della Camera. E si potrebbe fare qui un lungo elenco di esponenti centristi, leghisti, forzisti, grillini che hanno ricoperto o ricoprono un ruolo istituzionale di rilievo.
Nulla da eccepire, dunque, che abbiano avuto accesso a queste cariche anche esponenti di destra, della cultura politica post missina. Questo pluralismo è uno degli elementi di forza della nostra Repubblica.
Il primo, a destra, a salire su alti scranni, è stato, grazie a Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, eletto alla presidenza della Camera (ma esponenti post missini erano già stati al governo, sempre grazie a Berlusconi, e lo stesso Fini oltre che Pinuccio Tatarella avevano già ricoperto il ruolo di vice presidenti del Consiglio).
E fu proprio Gianfranco Fini a volere che Giorgia Meloni, alla sua prima legislatura, diventasse vice presidente della Camera, iniziando così la sua carriera istituzionale nazionale, dopo quella nella Provincia di Roma, anche per dare un segnale di cambiamento sia al suo partito che a Berlusconi.
Ignazio La Russa era allora uno dei capi corrente più influenti del partito, Alleanza nazionale, che Gianfranco Fini stava costituendo per scrollarsi di dosso l’ingombrante eredità missina e post fascista. E la famiglia La Russa, più o meno in quegli stessi anni, quasi si stava imparentando, letteralmente, con la allora giovanissima, ma già determinata, Giorgia Meloni. Ma questa è un’altra storia, che non interessa.
La Russa ha avuto, quindi, un ruolo sia nell’ascesa di Gianfranco Fini che nella sua discesa politica, quando scoppiò lo scandalo della casa di Montecarlo, sapientemente cavalcato anche da giornali berlusconiani, dal bravo Gianmarco Chiocci chiamato ora a dirigere il Tg1 nella Rai a trazione meloniana.
Ironia della sorte, furono proprio La Russa e Santanchè (i cui familiari si sono recentemente lanciati in una audace e ben più sostanziosa, ma pienamente legittima, operazione immobiliare a Forte dei Marmi) a prendere nella destra pubblicamente le distanze ed a pretendere passi indietro da Gianfranco Fini, quando fu coinvolto nella strana vicenda immobiliare politico familiare monegasca (che si trascina ancora oggi nelle aule di giustizia).
La Russa è stato, oltre che ministro della Difesa (un po’ assente, si lamentava allora il sottosegretario Guido Crosetto, ora ministro), uno dei coordinatori nazionali del Popolo della Libertà e poi uno dei fondatori, proprio con Crosetto e con Giorgia Meloni, di Fratelli d’Italia. La Russa trattò personalmente con Berlusconi la (buona) uscita di Fratelli d’Italia dal Popolo della Libertà e, quasi a suggellare un patto di eterna amicizia, anche i rispettivi figli erano stati associati in una impresa finanziaria.
Giorgia Meloni è stata a suo modo coerente nel lasciare prima Gianfranco Fini per Silvio Berlusconi (che l’aveva nominata ministro della Gioventù), per le questioni politico-giudiziarie, e poi anche Silvio Berlusconi, verso il quale era sempre più insofferente (e da Berlusconi ricambiata), anche qui per vicende politico-giudiziarie. E Giorgia Meloni poi, in questa legislatura, ha utilizzato proprio il vecchio “amico” La Russa per negare a Silvio Berlusconi, già gravemente malato, il riconoscimento della presidenza del Senato.
E sono oggi, ancora una volta, vicende politico-giudiziarie, stavolta quelle di Daniela Santanchè, a mettere alla prova il rapporto tra La Russa e Meloni, rispettivamente la seconda (il capo dello Stato, Sergio Mattarella ha cura, anche grazie alle nuove tecnologie e ai moderni mezzi di connessione, di non far scattare la”supplenza” durante i suoi viaggi all’estero) e la quarta carica dello Stato.
Come finirà tra i due, oltre e a parte la vicenda delle dimissioni di Santanchè?
La Russa è intelligentissimo e gode di un potere enorme, quasi incontrastato, istituzionale e politico, non solo nel suo partito ma pure trasversale, è stato eletto presidente del Senato con qualche aiutino delle opposizioni e ha scelto per Forza Italia il presidente della sua amata terra natia, la Sicilia: Renato Schifani. Per ora, le scaramucce tra le due alte cariche dello Stato si limitano alle regole del gioco delle carte del Burraco, alla calendarizzazione del disegno di legge sulla sicurezza (sino ai primi di marzo non ve ne è per ora traccia al Senato), o sono state sulle dimissioni di una componente del Consiglio superiore della magistratura, come adesso su quelle della ministra Santanchè, o sulla fiamma nel simbolo del partito, che La Russa vuole mantenere.
Scaramucce. I due, La Russa e Meloni, sono troppo legati per poter rompere o dividersi, continueranno a lungo a percorrere la stessa strada. Le loro strade non si incroceranno certo alle prossime elezioni politiche, nel 2027, quando Giorgia Meloni correrà da leader e nemmeno nel 2029, quando Giorgia Meloni, con buona pace di tutti gli illusi attuali aspiranti, compreso l’ex giovane monarchico Antonio Tajani, proverà a compiere il passo successivo, quello ulteriore, l’unico che manca ancora alla destra post missina, salire al Quirinale.
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