Anticipare la pensione: ma come si fa? Età, contributi: nel labirinto delle nuove regole

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di Enrico Marro

Oggi 67 anni di età (e 20 di contributi) per la pensione di vecchiaia, oppure 42 anni (41 per le donne) + 10 mesi di contributi. Ma questi requisiti dovrebbero seguire un adeguamento dal gennaio 2027

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Da giovani alla pensione non ci si pensa proprio. Ma è un errore. 

Per il futuro forse più di quanto lo sia stato in passato, quando la vita era più lineare o, se volete, più monotona: dopo 30-40 anni dello stesso lavoro (ma anche meno, basti pensare ai baby pensionati), ecco l’assegno di quiescenza, solo un po’ più leggero dello stipendio. 




















































Il problema maggiore, per le vecchie generazioni, era al massimo quello di farsi riconoscere i contributi non versati in gioventù. Ma il sistema prevedeva comunque l’integrazione al minimo: quando i contributi non erano sufficienti a raggiungere una soglia di legge, lo Stato integrava la pensione fino a quel minimo (nel 2025 esso è stabilito in 616,67 euro al mese). 

Ma oggi, per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995 e per questo ricade interamente nel sistema contributivo introdotto con la riforma Dini, non solo l’integrazione al minimo non c’è più, ma molte cose sono cambiate. E, con esse, l’idea stessa di pensione.

Sempre più spesso le persone fanno più lavori nell’arco della vita. Ma soprattutto è cambiata la prospettiva demografica. Siamo passati dal baby boom alla generazione Alpha, che non può fare a meno di domandarsi se la pensione la prenderà mai. Se le generazioni del Dopoguerra hanno visto crescere e consolidarsi lo Stato sociale, sono almeno trent’anni che i loro figli e nipoti fanno i conti con i tagli al Welfare, in particolare alle pensioni, imposti dalla necessità di mettere un freno al debito pubblico. Basti pensare che, secondo l’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato (giugno 2024) solo dalle riforme dal 2004 in poi si sono ottenuti risparmi «pari a oltre 60 punti percentuali di Pil, cumulati al 2060», cioè circa 1.200 miliardi di euro, quasi 21 miliardi e mezzo in media ogni anno.

Nel 2070 la pensione sarà il 66,3% dell’ultimo stipendio

Il risultato, dice ancora la Ragioneria, è che il «tasso di sostituzione netto» per un dipendente privato scende dall’82,7% del 2010 al 66,3% del 2070. 

Significa che, mentre chi è andato in pensione nel 2010 ha preso un assegno pari in media all’82,7% dell’ultima retribuzione netta, chi vi andrà nel 2070 prenderà, a parità di lavoro svolto, solo il 66,3%

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Proprio in previsione di questo impoverimento della pensione pubblica, sempre nei primi anni Novanta, fu introdotta la previdenza integrativa, ovvero la pensione privata che i lavoratori avrebbero potuto costruirsi versando una contribuzione aggiuntiva ai fondi. Ma finora vi hanno aderito solo 9,8 milioni di persone, cioè meno del 40% della forza lavoro, e tra gli under 35 gli iscritti sono appena il 27%: forse non ci pensano o spesso non hanno un lavoro continuativo e retribuzioni tali da poter versare altri contributi oltre quelli dovuti all’Inps. O forse si sentono tranquilli, essendo questa la generazione che si prepara a ricevere in eredità un patrimonio senza precedenti.

Meno (e più tardi): i conti con l’adeguamento alla speranza di vita

La pensione, dunque, si alleggerirà. Ma arriverà anche più tardi. 

Prima della riforma Amato del 1992, gli uomini andavano in pensione di vecchiaia a 60 anni e le donne a 55 e si poteva andare in pensione di anzianità con 35 anni di contributi a qualsiasi età, senza parlare dei baby pensionati nel pubblico impiego che potevano lasciare dopo appena 19 anni e mezzo di servizio (14 anni e mezzo le donne). 

Nel 2025 per andare in pensione di vecchiaia ci vogliono invece 67 anni d’età e 20 di contributi, senza distinzione tra uomini e donne, mentre per la pensione anticipata indipendentemente dall’età servono 42 anni e 10 mesi di contributi per i lavoratori e un anno in meno per le lavoratrici. 

E tutti questi requisiti, secondo la legge, dovrebbero subire un nuovo adeguamento, dal primo gennaio 2027, alla speranza di vita media rilevata dall’Istat. Che ha già annunciato che lo scatto dovrebbe essere di tre mesi in più. E la stessa cosa dovrebbe accadere nel successivo adeguamento biennale prescritto dalla legge, ovvero dal primo gennaio 2029. 

Questo significa che tra due anni servirebbero 67 anni e tre mesi per andare in pensione di vecchiaia mentre per lasciare il lavoro in anticipo sarebbero necessari 43 anni e un mese di contributi, mentre dal 2029 servirebbero rispettivamente 67 anni e mezzo d’età o 43 anni e 4 mesi di contributi.

Nel 2051 si arriverà a 69 anni e mezzo d’età

Aumenti dei requisiti, questi, determinati dal sistema che li lega appunto alla speranza di vita introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi. Da allora, con la parentesi causata dal Covid, c’è stato un continuo incremento e, secondo le ultime previsioni dell’Istat, nel 2051 si arriverà a 69 anni e mezzo d’età per poter andare in pensione di vecchiaia e a circa 45 anni di versamenti per lasciare il lavoro in anticipo. 

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Ma intanto non è detto che l’adeguamento nel 2027 ci sarà, vista la bufera scoppiata pochi giorni fa, quando la Cgil ha denunciato che l’Inps, sul suo simulatore online della pensione, aveva già incorporato i tre mesi in più, nonostante questi non siano stati ancora formalmente decisi dal governo. 

Il giorno dopo, l’istituto ha dovuto far marcia indietro e la Lega ha annunciato che si opporrà a qualsiasi aumento, avendo tra l’altro il vantaggio di avere il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, colui al quale la legge assegna il compito di firmare il relativo decreto. 

I meccasnismi in vigore per anticipare il pensionamento

Restano intanto ancora diversi canali per anticipare il pensionamento, ma molti sono stati fortemente ristretti dalle decisioni prese dal governo Meloni già con la manovra per il 2024. Vediamoli nel dettaglio.

I lavoratori che hanno cominciato a versare contributi dopo il 31 dicembre 1995 (sistema contributivo) possono andare in pensione con 64 anni d’età e 20 di contributi ma solo se hanno maturato un importo pari ad almeno 3 volte l’assegno sociale, cioè 1.616 euro nel 2025, limite che scende a 2,8 volte (1.508 euro) per le donne con un figlio e a 2,6 volte (1.400 euro) per quelle con due figli. 

Per raggiungere queste soglie la legge di Bilancio 2025 ha previsto la possibilità di sommare all’importo maturato presso l’Inps la rendita eventualmente maturata presso il fondo pensione, ma in tal caso il requisito dei contributi salirà da 20 a 25 anni. 

Inoltre, dal 2030 e per tutti la soglia d’importo salirà a 3,2 volte l’assegno sociale. 

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Alla fine, secondo le previsioni dello stesso governo, la platea di coloro che andranno in pensione a 64 anni si amplierà di pochissimo: appena un centinaio di lavoratori in più quest’anno e 600 nel 2034. 

Con la manovra l’esecutivo ha anche prorogato tre canali straordinari di prepensionamento che però, a causa dei numerosi paletti introdotti, sono ormai usati da poche migliaia di lavoratori all’anno. 

1) Quota 103 (in pensione con 62 anni d’età e 38 di contributi) ma con l’assegno integralmente calcolato col sistema contributivo e un tetto alla prestazione (fino al compimento dei 67 anni) pari a 4 volte il minimo (2.466 euro) e il divieto di cumulo con redditi da lavoro. 

2) Opzione donna, la pensione calcolata col contributivo riservata alle lavoratrici con almeno 61 anni compiuti entro il 2024 e 35 anni di contributi (il requisito dell’età scende a 60 anni per le donne con un figlio e a 59 per quelle con due figli) appartenenti a una delle seguenti categorie: disoccupate o dipendenti di aziende in crisi; care giver; invalide al 74%. 

3) Ape sociale, ovvero l’assegno ponte fino a 1.500 euro al mese a carico dello Stato fino al raggiungimento dell’età per la pensione di vecchiaia riservato a determinate categorie (disoccupati; care giver; invalidi al 74%; attività gravose) a partire da 63 anni e 5 mesi di età e con anzianità contributiva variabile da 28 a 36 anni. 

Il governo ha infine confermato le norme che consentono ai lavoratori che svolgono attività usuranti o che hanno versato almeno 12 mesi di contributi prima dei 19 anni d’età (i cosiddetti precoci) di ritirarsi qualche anno prima rispetto alle norme ordinarie.

«Noi in pensione non ci andremo mai»: ma è vero?

Detto tutto questo, come si può rispondere ai giovani che con un motivato scetticismo si chiedono se loro in pensione ci andranno mai? 

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Che sì, salvo catastrofi al momento imprevedibili, ci andranno. Ma sempre più tardi perché la durata media della vita si allunga ed è fondamentale mantenere un equilibrio tra la durata della vita lavorativa e quella della vita in pensione (nel 1990, in Italia, gli uomini vivevano in media 73,9 anni e le donne 80,2; nel 2023 gli uomini sono saliti a 81,1 anni e le donne a 85,2). 

E che l’importo dell’assegno pubblico sarà, in genere, sensibilmente inferiore a quello dell’ultima retribuzione. Per avere una buona pensione diventa quindi ancora più importante avere un buon lavoro. Due facce della stessa medaglia. 

25 gennaio 2025 ( modifica il 25 gennaio 2025 | 13:55)

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