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Alzi la mano chi conosceva l’espressione “made green in Italy”. Se non lo avete fatto non sentitevi in colpa, siete in numerosa compagnia. Lo schema nazionale su base volontaria per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti è stato partorito nel 2015 dall’allora ministero dell’Ambiente, che allora aveva tra le sue funzioni anche la tutela del territorio e del mare. Dieci anno dopo, a parte il cambio di denominazione all’Ambiente, che ora prevede pure la sicurezza energetica, torna anche il Made green in Italy.
Dal 13 gennaio scorso e fino al 3 febbraio prossimo è possibile partecipare al bando di concorso a questo link. Scrive il MASE che “al fine di incentivare l’adesione allo schema nazionale volontario denominato Made Green in Italy da parte delle aziende italiane, intende concedere un contributo a fondo perduto con il presente bando, per la realizzazione di progetti per la valutazione dell’impronta ambientale dei prodotti”. La dotazione finanziaria del bando è piuttosto scarsa, appena 114 mila euro. E ogni singola proposta progettuale potrà ricevere un contributo di massimo 10 mila euro.
Il soggetto richiedente può presentare domanda per il contributo solo ed esclusivamente via PEC alla mail programmicertificazione@pec.mase.gov.it Eventuali richieste di chiarimento potranno essere trasmesse ai seguenti indirizzi e-mail: malorgio.matteo@mase.gov.it; valentino.fiamma@mase.gov.it.
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Made Italy Green Again?
Come accennavamo, lo schema nazionale volontario per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti, denominato “Made Green in Italy”, è stato istituito dall’art. 21, comma 1 della legge n°221 del 2015. Nel 2018 è entrato in vigore il regolamento di attuazione ma da allora non c’è stata certo una corsa ad accaparrarsi il “marchio”, complice una certa farraginosità nella comunicazione e l’assenza di un’adeguata pubblicità. Per fare un esempio, soltanto a dicembre 2024 un “prodotto” di eccellenza come il prosciutto di Parma DOP ha avuto, attraverso il suo produttore Devodier Prosciutti, il riconoscimento dal MASE. E basta andare sul sito del MASE per verificare che i prodotti gà certificati “made green in Italy” sono ancora pochi, gestiti da pochissime aziende e (non se ne abbiano a male) non granché noti.
Se è vero che la comunicazione ambientale è sempre più importante per le aziende, e che questo settore è sempre più tenuto sotto osservazione dalle istituzioni europee, l’Italia deve fare fare decisi passi in avanti. Lo schema nazionale volontario “Made green in Italy”si basa sul metodo PEF – Product Environmental Footprint, come definito dalla Commissione europea nella raccomandazione 2013/179/UE (sostituita dalla raccomandazione 2021/2279/UE del 16 dicembre 2021), su cui il ministero ha poi innestato ulteriori e più ambiziosi requisiti nazionali di qualità ambientale, in grado di distinguere la produzione italiana.
Nella pagina informativa ad hoc del MASE si legge che “il Made Green in Italy ha l’obiettivo di valorizzare sul mercato i prodotti italiani con buone/ottime prestazioni ambientali (garantite da un sistema robusto scientificamente) e punta con il suo logo a rendere riconoscibili i prodotti per i consumatori, così da incoraggiare scelte più consapevoli. La quantificazione delle prestazioni ambientali di un prodotto, infatti, basata su uno studio PEF completo, verificato e validato da un ente terzo indipendente, prevede tre classi di prestazione: A (valore superiore al benchmark); B (valore prossimo al benchmark); C (valore inferiore al benchmark). Ottengono l’uso del logo solo i prodotti in classe A e quelli in classe B (a fronte di un impegno dell’azienda a migliorare le proprie prestazioni”.
Inoltre in una manciata di passaggi il ministero ribadisce che la certificazione ambientale messa a disposizione va anche a supporto delle “strategie di marketing aziendale”. Infine vale la pena far notare che il “made in Italy” è di maglie molto larghe, nel senso che si applica anche ai prodotti che utilizzano materie prime provenienti dall’estero. Come spiega il MASE, infatti, “un prodotto che non è 100% made in Italy e coinvolge altri Paesi nella sua lavorazione può comunque aderire allo schema, se l’ultima sostanziale trasformazione, economicamente giustificata, avviene in Italia”.
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