Contro scettici e iperscientisti: limiti e prospettive di una scuola da riformare

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Nei social e nel mondo della scuola per qualche giorno non si è parlato di altro. Poesie a memoria, lettura della Bibbia, latino alle scuole medie, mitologia nordica, storia dell’Occidente. Si tratta di alcune proposte di aggiornamento della didattica scolastica (che coinvolgerebbero elementari e medie, inferiori e superiori) presenti nella relazione della commissione incaricata dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Dal prossimo anno o, al massimo, dall’anno scolastico 2026/2027, queste proposte diventeranno parte del percorso formativo di milioni di studentesse e studenti. Sembra, quello delineato dalla commissione, uno sguardo nostalgico sulla scuola dei decenni passati. Se molti vedono in questo progetto di riforma una virata ideologica a scapito della formazione e della laicità della scuola (non solo in termini religiosi, ma anche politici), altri invece definiscono queste idee come reazionarie, antiscientiste e distanti da un’idea di scuola che dovrebbe essere orientata all’ipertecnologismo tanto caro a moltissime persone.

Si parta dal fatto che l’istruzione è un processo totale, che deve inserire le ragazze e i ragazzi in un contesto di contenuti globali e sfaccettati, senza estremismi e senza limiti. Se leggere la Bibbia può sembrare anacronistico, polveroso, inutile, non posso negare l’ansia e la preoccupazione che mi assalgono quando qualcuno propone di abolire il liceo classico (o quello delle scienze umane) per lasciare spazio soltanto ad una formazione orientata alla scienza, alla tecnologia, all’intelligenza artificiale o alla progettazione ingegneristica. Frutto, questa filosofia deviata, di una società convinta − anzi, illusa − che il progresso sia soltanto appannaggio degli scienziati. Siamo sempre più schiavi dei tecnocrati e dei tecno-oligarchi, che non fanno altro che sminuire le conoscenze umanistiche, linguistiche, filosofiche e antropologiche. Tanto prima o poi andremo su Marte, no? Cosa ce ne facciamo del latino? A cosa serve leggere la Bibbia, quando ci sono alternative fantasy molto più stimolanti? Perché dovremmo imparare le poesie memoria o, peggio ancora, studiare la grammatica? Non sarebbe più utile imparare soltanto il linguaggio informatico? Si tratta di posizioni che mettono i brividi.

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Il discorso è delicato: per carità, da storico so bene quanto l’umanità, per millenni, sia stata condizionata dalla religione e dalla sfera spirituale, e che la scienza moderna non convive con noi che da un paio di secoli. Ma si rischia, con risultati che prefiguro inquietanti, di trasformare la scienza nella religione del futuro e di esautorare le poche, fragili, rovine di sapere umanistico che alcune persone si impegnano a far sopravvivere (dai licei classici alle biblioteche, passando per altre forme di trasmissione del sapere non-scientifico). Sebbene sarebbe auspicabile la creazione di un universo scolastico dove ognuno possa trovare la sua strada, dove ogni anche minima inclinazione possa essere valorizzata e messa nelle condizioni di essere espressa compiutamente, ha poco senso − visto il materiale umano del tempo presente − pensare di fare del bene inserendo il latino o il greco alle scuole medie (greco che, in realtà, è molto più utile del latino nella prospettiva di una formazione scientifica), oppure di imporre di imparare a memoria il 5 Maggio, o far studiare i cicli epici nordici. Tutto bello, ma siamo pronti? Nel secondo dopoguerra non c’è ancora l’urgenza di imparare l’inglese, o di saper dominare la tecnologia: ecco perché tutto questo aveva ragione di esistere. Imparare la lingua della propria nazione − dagli elementi grammaticali storici alla poesia − così come le caratteristiche geografiche e i rudimenti storici, era un processo che si integrava ad una base culturale che poteva formarsi anche attraverso la lettura indipendente, magari di qualche giornale, o andando al cinema o a teatro.

Riportare all’attivo queste metodologie e questi elementi programmatici non serve a nulla, se il ritmo dello sprofondamento culturale che stiamo vivendo non viene rallentato. I ragazzi sarebbero felici se un docente proponesse loro di passare qualche ora su TikTok (o peggio, su OnlyFans), mentre otterrebbe un sonoro ‘‘no’’ l’idea di vedere un film degli anni ‘60 o una prosa teatrale. Parallelamente alla deriva socioculturale, come detto prima, si fa strada quella morbosa pratica di accentrare tutta l’attenzione sui dogmi scientifici e tecnologici. Lo scenario presente ci bombarda di continui riferimenti alla grandezza della scienza, alla grandezza del progresso medico, all’irreversibilità del mondo robotizzato che ci aspetta; in prospettiva di qualche decennio siamo proiettati al di fuori del nostro pianeta, dove ci aspetta una nuova vita in qualche sistema innaturale creato a immagine e somiglianza del miliardario di turno. Il futuro si sta scrivendo già da adesso, con l’esclusione più o meno motivata di tutto il sapere non-utile: sull’arca di Noè 2.0 non ci sarà spazio per tutti. Sembra iniziata una sorta di selezione. E tutto questo avverrà (e in molte nazioni sta già avvenendo) proprio a partire dalla scuola. In Italia, i numeri degli iscritti al Liceo Classico sono in rapido calo già da anni, con flessioni di almeno due punti percentuali da un anno all’altro. In aumento gli istituti tecnici, stabili i professionali. Un tempo si diceva che al liceo classico si imparasse un metodo di studio: niente di più sbagliato. Non è l’indirizzo scolastico a fornire gli elementi per apprendere e per riflettere criticamente, semmai si tratta di una inclinazione naturale che può essere plasmata dall’incontro con i giusti docenti. Mi viene da ridere quando si dice che il latino è utile per il pensiero logico: sono anni che insegno questa materia ai ragazzi di differenti licei e mai mi è capitato di trovare qualcuno che avesse tratto benefici dalla pratica di questa lingua. Dico questo affinché si capisca che non esiste una scuola migliore, o una materia miracolosa. Nella vita pratica, della matematica che si studia a scuola, non serve che la padronanza delle quattro operazioni (ma dato che abbiamo tutti la calcolatrice, possiamo anche smettere di fare calcoli a mente). Detta così, la scuola è inutile. Il latino non serve di certo a ragionare meglio (a quello dovrebbe servire la filosofia, insegnata quasi unicamente sul profilo storico), la matematica serve soltanto a complicarci la vita, l’arte lasciamola perdere perché è pesante. Sembra non salvarsi nulla.

In realtà è fondamentale fare ogni cosa, nella misura in cui si capisce che studiare non deve avere come finalità diretta l’imparare qualcosa di prontamente spendibile: studiare serve a metterci nella condizione di poterci difendere, di poter discutere, di poter essere liberi e di poter scegliere a cosa dedicare la nostra vita. Ma questa scuola non esiste da un pezzo, sempre che sia mai esistita. Si dovrebbe mettere al centro del processo educativo lo sviluppo di prospettive soddisfacenti e sostenibili da un punto di vista culturale e professionale, senza il grottesco tentativo di trasformare la scuola in una batteria di polli pronti per essere spremuti da un sistema economico iper-concorrenziale, che sterilizza la moralità di sempre più giovani, convincendoli che tutto debba essere veloce. Il nostro è il tempo non della fretta, ma dell’ansia escatologica. Bisogna fare prima che tutto finisca. Che sia la fine del mondo a causa di qualche asteroide o guerra nucleare, a quanto pare stiamo vivendo una perfetta apocalisse giovannea. Alla faccia dell’inutilità biblica.

Aggiornato il 23 gennaio 2025 alle ore 11:00



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