Il commento/ La Sinistra e il pantano referendum

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È comprensibile che l’attenzione degli osservatori politici si sia concentrata sulla non ammissibilità del referendum sulla legge Calderoli, perché si sarebbe trattato di cancellare per vie traverse una disposizione della Costituzione che prevede la possibilità a certe condizioni di autonomie regionali differenziate. Non è però il caso di prendere sottogamba la questione dei cinque referendum ammessi che si svolgeranno in primavera.

    Nell’immediato l’attenzione ha riguardato i problemi che porteranno al Pd i quattro referendum sul Jobs Act varato a suo tempo dal governo Renzi. Anche questo è comprensibile, ma non sufficiente, anche perché a questi si aggiunge il referendum sulla modifica dei requisiti temporali per ottenere la cittadinanza italiana. Certamente la questione del Jobs Act non indebolirà la maggioranza di governo: i suoi elettori, neppure quelli dei ceti operai, sono mobilitabili su quei temi e per di più la previsione è che non si raggiungerà il quorum di votanti necessario per renderne valido l’esito.

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   Che invece ci saranno ripercussioni sui partiti di opposizione è abbastanza scontato, perché già si manifestano spaccature nel Pd, i cui esponenti erano nel governo Renzi quando la legge fu approvata, mentre non è ancora chiaro cosa faranno Conte e il suo M5S. Scontati viceversa l’appoggio ai quesiti sindacali di Avs e la contrarietà di Azione e Iv. Ciò che va approfondito è quali saranno le conseguenze di queste spaccature interne al fu campo largo.

   Si sottovaluta il fatto che Landini & Co. tenderanno a drammatizzare il più possibile la vertenza, perché non possono fare altrimenti: al di là del legittimo tentativo di vincere, non si può dimenticare che le sconfitte non sono tutte eguali. Se Cgil e compagni vedessero un flop di partecipazione e un clima di freddezza della pubblica opinione, il loro futuro e le loro stesse leadership verrebbero quantomeno fortemente indebolite se non addirittura messe in discussione. I referendum sul Jobs Act sono stati fortemente personalizzati e viene in mente cosa è successo dopo il referendum costituzionale che Renzi volle gestire in quel modo (il fatto che oggi i leader implicati siano più d’uno non cambia i termini della questione).

   In un clima che diventerà surriscaldato anche per la fame di teatrini politici che gira nei media televisivi e non solo, è difficile pensare che nel Pd ce la si potrà cavare con l’appello a rispettare sportivamente il pluralismo delle diverse posizioni. Oltre ad un problema interno al partito, che esiste, basta vedere i dibattiti in corso sul “centro”. Ci sarà l’assalto dall’esterno di Avs che comprensibilmente può pensare di guadagnarsi elettori di sinistra a spese di un Pd che si misura con tensioni fra diverse opzioni e si vedrà se e come M5S cercherà di approfittare dell’occasione per riequilibrare qualche peso nella coalizione.

    Una opposizione impantanata in un clima del genere si potrebbe pensare giovi al governo. Non è detto: anche la coalizione di maggioranza ha qualche problema interno e, come sempre avviene in politica, la possibilità di essere veramente sfidata dai partiti contrari, aiuta i suoi vertici responsabili a tenere a freno, o addirittura a marginalizzare, le proprie frange più radicaleggianti.

   Al di là di questo, c’è un ulteriore aspetto da tenere in considerazione. Poiché siamo davanti ad una battaglia di origine sindacale, ma in presenza anche qui di una spaccatura perché la Cisl è su una diversa posizione, la battaglia per spingere alla partecipazione al voto con tutta la drammatizzazione prevedibile si riverserà sul mondo del lavoro. È un universo inquieto. Sebbene le questioni interessino prevalentemente i settori privati e le imprese di una certa dimensione, non si può escludere che anche il mondo del pubblico impiego sia trascinato nell’agone. Aggiungiamoci qualche rinforzo più o meno estemporaneo dagli ambienti radicali dell’opinione pubblica, giovanile e non.

    Un clima di scontro allargato nelle fabbriche, e non solo, è quanto proprio non ci si può augurare in questa fase che vede insieme crisi più o meno forti in certi settori, nonché espansione e sviluppo in altri. Non ci pare difficile immaginare che se lo scontro si concentrerà su questioni oggi più di bandiera che reali, diventerà complicato battersi invece per un doveroso incremento dei redditi di lavoro, elemento importante per sostenere i consumi e lo sviluppo.

    Ciò che ci preoccupa è non riuscire ad individuare chi potrà esercitare un ruolo di raffreddamento su un clima che minaccia di arroventarsi. Come si sa, in questi casi ogni mossa radicaloide genera una contromossa di eguale natura in un crescendo che poi provoca guai.

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    E dire che un referendum significativo c’è: è quello sul taglio degli anni di residenza richiesti agli immigrati per ottenere la cittadinanza italiana. Anche in questo caso sarà arduo che si raggiunga il quorum di votanti necessario, anzi i più danno per scontato quest’esito. Però se si potesse raggiungere un livello comunque significativo di partecipazione sarebbe un segnale da mandare alla classe politica perché si possa avere più coraggio e determinazione ad affrontare un problema come l’integrazione degli immigrati che non si può lasciare in mano agli opposti estremismi di chi sogna porte strettissime e di chi si immagina assenza quasi totale di controllo alle vie d’accesso.

   Il tema è importante perché si tratta di governare un fenomeno che è già cospicuo e che lo sarà ancora per decenni, un fenomeno che apporta un allargamento di popolazione di cui, governandolo con sapienza, abbiamo bisogno da diversi punti di vista. Purtroppo è da pensare che in un contesto surriscaldato per gli scontri sui referendum relativi al Jobs Act, quello sulle norme per la cittadinanza proposto dai radicali finirà marginalizzato. E non è bene.

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